Family Act, il momento giusto è adesso

di Chiara Saraceno

Leggi l’articolo su La Stampa, 11 Aprile 2022

Il Senato il 6 aprile scorso ha approvato in via definitiva a larga maggioranza il Family Act: una legge delega al Governo che impegna quest’ultimo ad approvare una serie di provvedimenti a sostegno delle famiglie con figli, della genitorialità, dell’accesso delle bambine/i e degli adolescenti a occasioni educative formali e informali. Si tratta di un ambizioso progetto di intervento a tutto tondo in un capo, le politiche per le famiglie, a lungo negletto in Italia.

Come legge delega, è una legge di indirizzo, che andrà riempita concretamente da leggi più puntuali, come è già avvenuto per l’assegno unico universale che ne costituiva originariamente il primo passo, ma che era stato poi scorporato per consentirgli un’attuazione più rapida. Non è tuttavia una scatola vuota, perché contiene indicazioni precise sulla direzione che dovranno prendere le leggi attuative: un allargamento e maggiore fruibilità dei congedi di maternità e parentali per tutte le lavoratrici e lavoratori, un rafforzamento del congedo di paternità per favorire un riequilibrio nelle responsabilità genitoriali tra madri e padri, il riconoscimento dell’importanza educativa delle attività extracurriculari, l’accesso alle quali quindi non può essere vincolato alle disponibilità economiche della famiglia e allo stesso tempo la riduzione dei costi dell’educazione formale a partire dal nido.

Desta qualche perplessità che, mentre non viene ipotizzata nessuna cifra a finanziamento di queste varie misure, quasi tutte, non solo, come è ovvio, i congedi, sono formulate sotto forma di voucher o detrazioni, in controtendenza con la pulizia e razionalizzazione operata con l’assegno unico e anche con il dibattito in corso sulla opportunità di ridurre la massa di detrazioni che disegnano un welfare fiscale spesso opaco e diseguale, come documentato anche dal recente volume La mano invisibile dello stato sociale, a cura di Matteo Jessoula e Emmanuele Pavolini, edito da il Mulino. Un più chiaro orientamento al rafforzamento dell’offerta di servizi e della loro qualità avrebbe migliorato non solo l’universalismo, ma anche l’efficacia rispetto all’obiettivo di sostenere insieme le scelte positive di fecondità e l’occupazione delle madri.

La legge delega ora inizia il suo iter di formulazione e poi approvazione delle leggi attuative: un processo che richiederà attento monitoraggio e azione di indirizzamento da parte dei soggetti della società civile interessati, in primis, ma non esclusivamente, il movimento e le associazioni delle donne, perché il tutto non si perda per strada prima della fine della legislatura e sia coerente con la riforma fiscale da un lato, l’attuazione del PNRR (in cui il family act viene richiamato) dall’altro. Questi passaggi non sono mai semplici nel nostro Paese e sono particolarmente a rischio nella situazione attuale, in cui la nuova emergenza, sommandosi a quelle precedenti, fa cambiare l’agenda e le priorità ogni giorno.

A fronte della persistente povertà di molte famiglie con figli, alla perdita del lavoro da parte di molte madri e al rischio che la crisi energetica produca nuova disoccupazione sia femminile sia maschile, alle difficoltà crescenti che molte famiglie stanno sperimentando nel fronteggiare sia i costi energetici sia quelli alimentari, riformare i congedi o distribuire qualche voucher per permettere a ragazzi/e di praticare uno sport, imparare a suonare uno strumento, fare un viaggio di istruzione, può sembrare un’esigenza secondaria. Perché per molte famiglie l’alternativa non è quella formulata infelicemente da Draghi, tra la pace e l’uso del ventilatore in estate, ma tra pagare l’affitto o il riscaldamento, non andare in mora con le bollette o nutrire adeguatamente i propri figli, permettere loro di scegliere il corso di studi più corrispondente alle loro inclinazioni o quello che si pensa porti più velocemente ad una occupazione.
Se non si vuole che la solidarietà all’Ucraina venga meno, è a chi vive queste alternative che occorre pensare nel valutare attentamente come distribuire i costi e i sostegni derivanti da questa nuova, drammatica, emergenza. Allo stesso tempo il family act, se inserito in una azione di robusto rafforzamento dei servizi (che sono anche fonte di offerta di lavoro buono), può fornire la prospettiva non solo emergenziale in cui creare condizioni favorevoli alle famiglie con figli, anche non abbienti e senza condizionatore. Per questo non va accantonato in attesa di tempi migliori.

Afghanistan, i bambini soli di Kabul

Nel Paese 10 milioni di minorenni hanno bisogno di aiuti

di Chiara Saraceno

La Repubblica, 19 agosto 2021

Le immagini che mostrano folle, in stragrande maggioranza di uomini, che tentano la fuga dall’Afghanistan sembrano confermare indirettamente che poco o nulla era cambiato in quel Paese nei rapporti tra uomini e donne e tra le generazioni, ma anche tra città e zone rurali, nei vent’anni di occupazione da parte delle truppe Nato. Nella maggior parte del Paese e dei gruppi sociali vigeva la legge islamica, le adultere venivano ancora arrestate, fustigate e lapidate, i matrimoni forzati delle bambine continuavano a essere la norma. Quasi quattro milioni di bambine e bambini non andavano a scuola e le violenze contro i minori erano diffuse, così come i reclutamenti forzati per farne dei soldati.

Secondo l’Unicef, l’Afghanistan è da molti anni uno dei posti peggiori sulla terra dove essere un bambino o una bambina. A ciò si aggiunga, negli ultimi due anni, la siccità e le conseguenze del Covid 19, che hanno avuto un impatto devastante sulle stesse chance di sopravvivenza della popolazione più povera, lontana dall’occhio dei media nazionali e internazionali, e ancor più tra i bambini in essa. Come segnala anche Save the Children, la situazione umanitaria per i bambini in Afghanistan era già disastrosa. L’accelerazione del conflitto armato e gli sfollamenti di massa hanno peggiorato una situazione già grave.

Nelle parole del capo delle operazioni sul campo e dell’emergenza dell’Unicef, Mustapha Ben Messaoud: “Ogni singolo giorno che passa, l’acutizzarsi del conflitto in Afghanistan impone un tributo maggiore alle donne e ai bambini del Paese. Infatti, dall’inizio dell’anno, più di 550 bambini sono stati uccisi, 1400 feriti. Tragicamente, come ha chiarito il quinto rapporto del Segretario Generale dell’Onu sui bambini e il conflitto armato in Afghanistan – le perdite di minori nella prima metà di quest’anno hanno costituito il più alto numero di bambini uccisi e mutilati da quando i casi vengono registrati dalle Nazioni Unite”.

Si prevede che, senza un’azione urgente, 1 milione di bambini sotto i 5 anni saranno gravemente malnutriti entro la fine del 2021, e 3 milioni soffriranno di malnutrizione acuta moderata. Molti di loro vivono nei campi dove si raccolgono gli sfollati, che spesso mancano di beni essenziali, a partire dall’acqua. Altri vivono per strada, con o senza adulti.

Unicef stima che dei 18 milioni (la metà circa della popolazione afghana) che ha bisogno di assistenza umanitaria, 10 milioni siano minorenni. È altamente improbabile che queste bambine e bambini, e le loro mamme, possano anche solo pensare di raggiungere un aeroporto dove lottare per un passaggio fuori dal Paese, abbiano “titolo” per essere considerati meritevoli di protezione internazionale, a causa della collaborazione con i paesi Nato occupanti, per entrare in un qualche corridoio umanitario che li trasporti in luoghi più sicuri. Difficilmente, ora come ieri, suscitano l’attenzione solidale riservata a chi sta per perdere, o ha già perso, ciò che credeva di aver conquistato e comunque faceva parte della piccola quota dei “visibili” allo sguardo occidentale.

È sicuramente importante e doveroso che vengano aperti corridoi umanitari per le donne e i bambini che vogliono, o devono, fuggire dal Paese. Lo chiedono molte associazioni della società civile, impegnandosi anche a mettere a disposizione risorse e competenze per favorire l’accoglienza di chi arriverà. Ma occorre pensare a chi invece rimane, soprattutto ai più piccoli, per motivi di umana decenza, innanzitutto, ma anche per evitare, come non si è fatto abbastanza in questi vent’anni, di lasciare nella invisibilità una parte numericamente così ampia della generazione più giovane, rendendola facile preda, se riesce a sopravvivere, di ogni potere violento.

Per questo Unicef e Save the Children chiedono di poter continuare a svolgere il loro lavoro in quel Paese, in condizioni di sicurezza.

Didattica arte ragazze che dipingono

La mia lezione dedicata ai Sì-Dad

Risposta a Paola Mastrocola

di Chiara Saraceno

La Stampa, 7 dicembre 2020.

La didattica a distanza come opportunità di ripensare insieme la didattica e l’uso del tempo? È il suggerimento di Paola Mastrocola su La Stampa di ieri (6 dicembre), che invita a non chiudersi – studenti, insegnanti, genitori – nella sola lamentazione per cogliere le opportunità, nelle limitazioni del presente ma anche in un futuro prossimo più libero da vincoli, offerte dal digitale.
Non è la prima a farlo. Fin dal lunghissimo lock down di questa primavera molti – anche se forse non la maggioranza – degli insegnanti si erano resi conto che la didattica a distanza non poteva essere la pura ripetizione di quella in presenza, che per altro spesso è lungi dall’essere soddisfacente.
E molti pedagogisti e osservatori vari si erano spinti ad auspicare che il ritorno in classe sarebbe stato accompagnato da una forte revisione delle modalità didattiche: meno frontali e unidirezionali, più partecipative e responsabilizzanti gli studenti non solo nell’eseguire i compiti, ma nel fare ricerche, lavori di gruppo, esplorazioni sul mondo circostante.

Modalità didattiche messe in pratica da tempo da diversi insegnanti, promosse da decenni da associazioni e movimenti come il Movimento di cooperazione educativa, La scuola senza zaino, Saltamuri e altri, tra i più vocali a chiedere il ritorno alla scuola in presenza, ma anche i più attivi nel dare senso e contenuto alla Dad, oltre a coglierne le difficoltà per gli studenti più svantaggiati. Eppure, nonostante una antica e nobile tradizione aperta a innovarsi per far fronte al cambiamento sociale e tecnologico, faticano a diventare prassi normale nelle scuole, a ispirare modalità strutturali di formazione degli insegnanti, programmi ministeriali per la normalità e per l’emergenza. Anzi, sia la Dad che la scuola in presenza, nella situazione di incertezza attuale, in cui interruzioni più o meno temporanee e frequenti sono una possibilità non remota, rischiano di sollecitare gli insegnanti (e anche i genitori a chiedere loro che lo facciano) a “correre” per finire il programma, sacrificando tutto il resto: non solo le gite, le visite ai musei , le esplorazioni del territorio circostante la scuola, gli interventi di persone esterne – ovvero tutte le attività che anche nella scuola più tradizionale e frontale spezzano il ritmo, introducono nuove prospettive – ma anche le attività più libere, che sollecitano la creatività e l’iniziativa degli studenti.
Sembra che il motto sia che “non bisogna perdere tempo”, che occorre “dedicarsi ai fondamentali”. Si, ma come? Siamo sicuri che la lezione frontale seguita dalla lettura del libro di testo e dall’esecuzione dei compiti connessi sia l’unico o il migliore dei modi? Molti pedagogisti lo negano (si pensi ad esempio a ciò che scriveva De Mauro sull’insegnamento dell’italiano). La Dad da questo punto di vista può essere una opportunità, non in sé, ma in quanto, costringendo all’uso del digitale, rende visibile in modo generalizzato la possibilità di accedere a fonti di conoscenza, strumenti, variegati e ricchissimi, da usare per costruire il proprio palinsesto didattico (digitale e non), e attraverso cui guidare gli studenti perché imparino a distinguere tra tipi e validità delle informazioni e così via. Ma per fare questo occorre una concezione di sé come insegnante e dell’insegnamento non come fonte/trasmettitore monocratico e autarchico (con il libro di testo) di una conoscenza di cui vengono sottratte alla vista e alla consapevolezza degli studenti i percorsi e le varietà degli approcci e dei punti di vista, ma come insieme mediatore di fonti e soggetti diversi di conoscenze e sollecitatore di curiosità e interessi. Un ruolo cruciale, che richiede una capacità, e disponibilità, all’innovazione, a mettersi in gioco, a cooperare con altri e ad accettare la sfida della partecipazione attiva degli studenti. Una concezione dell’insegnamento e dell’apprendimento che, si badi bene, pre-data l’arrivo del digitale. La scuola italiana è piena di insegnanti così e sono fortunati gli studenti che li incontrano. Ma troppo spesso sono percepiti come una eccezione, talvolta anche fastidiosa, quando non rischiosa per i loro studenti, perché “non seguono il programma”. Non, almeno, nelle modalità codificate.

Fase 2, la scuola? “Cruciale come le attività produttive per la ripresa del paese”

articolo di Alice Facchini

6 maggio 2020
Leggi tutto l’articolo su Redattore Sociale

Il Redattore Sociale riprende l’appello di Alleanza per l’Infanzia al Governo affinché sostenga il reddito delle famiglie, metta i genitori in condizione di poter lavorare e valorizzi il ruolo del sistema scolastico. Saraceno: “Il rischio è che i servizi educativi non saranno più presenti al momento della ripresa, riducendo ulteriormente un’offerta già insufficiente”

Alessandro Rosina ospite di ‘Giorno per Giorno’ (RAI Radio1)

Questa mattina Alessandro Rosina – assieme a Raffaella Milano (Save the Children) – è intervenuto nella trasmissione di RAI Radio 1 “Giorno per giorno” per affrontare il tema BAMBINI E MILLENIALS AI TEMPI DEL COVID. Naturalmente si è parlato del comunicato di Alleanza per l’Infanzia che chiedeva al governo di mettere al centro della Fase 2 bambini e adolescenti.

Ascolta la trasmissione GIORNO PER GIORNO (dal minuto 33 circa)