Parere sulle norme contenute nel Disegno di legge di bilancio 2020 (versione del 31-10-2019) in merito alle disposizioni in favore della famiglia (Art. 42) e sulla proposta di legge Delrio, Lepri ed altri (C. 687): “Delega al Governo per riordinare e potenziare le misure a sostegno dei figli a carico attraverso l’assegno unico e la dote unica per i servizi”

Premessa

L’obiettivo sia dell’art. 42 del Disegno di legge di bilancio 2020 che della proposta di legge Delrio ed altri (C. 687), di rafforzare e di razionalizzare il frammentato sistema di interventi legati alla presenza di figli per migliorarne l’efficacia e l’equità, anche al fine di un sostegno alle scelte di fecondità, è totalmente condivisibile.

In particolare, per quanto riguarda la proposta di legge C. 687, è condivisibile il principio di fondo di articolare gli interventi tramite due strumenti: l’assegno unico (quale misura di sostegno economico per i figli a carico) e la dote unica per i servizi (quale misura volta a favorire la fruizione di servizi a sostegno della genitorialità).

Con il primo si aiutano le famiglie, tutte, non solo quelle appartenenti a determinate categorie, a fronteggiare il costo dei figli, riducendo il rischio che la scelta di avere un figlio (in più) produca forti squilibri nel bilancio famigliare o addirittura causi la caduta in povertà. È opportuno ricordare a questo proposito che l’Italia è uno dei paesi dell’Unione Europea con più forte incidenza della povertà minorile e dove sono particolarmente a rischio di povertà le famiglie con più figli.

Con il secondo, il voucher servizi, si aiutano i genitori nei propri compiti di cura ed educativi, sia favorendo la conciliazione tra lavoro e famiglia, sia offrendo possibilità di confronto e consulenza, sia allargando i contesti e le relazioni educative per i bambini.

Ugualmente apprezzabile è lo sforzo fatto nel Disegno di legge di bilancio 2020 (versione del 31-10-2019), che riprende una serie di obiettivi della proposta di Legge suddetta e li integra.

In particolare, per quanto riguarda le risorse economiche dedicate alle politiche di sostegno della famiglia, il comma 1 dell’Art. 42 prevede di istituire un fondo denominato «Fondo assegno universale e servizi alla famiglia», con una dotazione pari a 1.044 milioni di euro per l’anno 2021 e a 1.244 milioni di euro annui a decorrere dal 2022.

In merito al congedo obbligatorio per il padre lavoratore dipendente, il comma 4 dell’Art. 42 del Disegno di legge di bilancio 2020 prevede sia la proroga anche al 2020 dell’articolo 1, comma 354, della legge 11 dicembre 2016, n. 232, sia un aumento a sette giorni sempre per l’anno 2020 di tale congedo, oltre alla possibilità anche per il 2020 che il padre lavoratore dipendente fruisca di un periodo ulteriore di un giorno, previo accordo con la madre e in sua sostituzione in relazione al periodo di astensione obbligatoria spettante a quest’ultima. Complessivamente, il dispositivo cerca di rafforzare lo strumento del congedo obbligatorio per il padre lavoratore dipendente.

Per quanto riguarda le misure di sostegno economico per i figli a carico (il primo dei due strumenti indicati nella proposta di legge C. 687), l’Art. 42 del Disegno di legge di bilancio 2020 si ricollega a quanto introdotto con l’articolo 1, comma 125, della legge 23 dicembre 2014, n. 190, che prevede un assegno di importo pari a 960 euro annui erogato mensilmente a decorrere dal mese di nascita o adozione fino al compimento del terzo anno di età e condizionato alla situazione economica familiare. In particolare il comma 2 dell’Art. 42 prevede un sensibile innalzamento dell’importo di tale assegno fino al compimento del primo anno di età, sempre modulandolo rispetto alla condizione economica familiare, con una cifra massima pari a 1.920 euro. La copertura finanziaria di tale onere aggiuntivo dell’assegno nel primo anno di vita del bambino (pari a 348 milioni di euro per l’anno 2020 e a 410 milioni di euro per l’anno 2021) è assicurata da parte delle risorse previste nel «Fondo assegno unico universale e servizi alla famiglia» di cui sopra (comma 3 dell’Art. 42 del Disegno di legge di bilancio 2020 prevede).

Infine, per quanto riguarda le misure volte a favorire la fruizione di servizi a sostegno della genitorialità, il comma 5 dell’Art. 42 del Disegno di legge di bilancio 2020 prevede integrazioni all’articolo 1, comma 355, della legge 11 dicembre 2016, n. 232. L’articolo della legge del 2016 prevedeva forme di sostegno economico (un buono di 1.000 euro su base annua) per il pagamento di rette relative alla frequenza di asili nido pubblici e privati, stabilendo inoltre un limite massimo complessivo di spesa, pari a 300 milioni di euro per l’anno 2019. La nuova normativa proposta nel comma 5 dell’Art. 42 del Disegno di legge di bilancio 2020, prevede a decorrere dall’anno 2020, che tale buono venga incrementato fino a 1.500 euro a seconda della situazione economica del nucleo familiare. Inoltre, il limite massimo complessivo di spesa passa dai 300 milioni di euro previsti per l’anno 2019 ai 520 milioni di euro per l’anno 2020 e 530 milioni di euro per l’anno 2021, per poi proseguire con incrementi annui fino alla cifra di 621 milioni di euro annui a decorrere dall’anno 2029. Anche in questo caso, la copertura finanziaria di tali oneri aggiuntivi è assicurata tramite le risorse previste nel «Fondo assegno unico universale e servizi alla famiglia» di cui sopra (comma 3 dell’Art. 42 del Disegno di legge di bilancio 2020 prevede).

Criticità ed aspetti da migliorare

L’Alleanza apprezza lo sforzo del Governo e del Parlamento e condivide i punti di fondo dei due provvedimenti. Allo stesso tempo ritiene che vi siano alcune criticità che meritano attenzione pe migliorare l’efficacia dei provvedimenti stessi nel sostenere le famiglie con figli.
Le osservazioni che seguono vanno quindi collocate all’interno di questa condivisione di principio e riguardano i seguenti aspetti.

Sostegno economico e servizi

  1. alcuni aspetti del funzionamento dell’assegno universale;
  2. il tipo di servizi per cui può essere utilizzata la dote;
  3. la necessità di integrare gli strumenti dell’assegno unico e della dote con un sostanzioso investimento in servizi socio-educativi;
  4. le età dei figli considerate ai fini della erogazione rispettivamente dell’assegno e della dote;

Congedi

  1. la mancata messa a fuoco della situazione delle lavoratrici autonome o con contratti a tempo determinato;
  2. la durata del congedo obbligatorio per i padri;
  3. l’ampliamento del congedo parentale per i genitori.

In dettaglio, le osservazioni dell’Alleanza sono le seguenti.

Il funzionamento dell’assegno universale

L’Alleanza non entra nel dibattito se sia più opportuno avere misure uguali per tutti, a prescindere dal reddito o se, all’interno di una logica universalistica e non categoriale, sia più opportuno graduare il valore della misura (sia nel caso dell’assegno sia in quello della dote) in base al reddito della famiglia. Ci sono buone ragioni per sostenere sia l’una sia l’altra posizione, anche dal punto di vista dell’universalismo e dell’equità. Accettando la scelta dei proponenti delle due proposte di legge di graduare le misure in base al reddito famigliare, in modo da renderle più corpose per i redditi più bassi accentuandone l’efficacia redistributiva, le osservazioni riguardano i seguenti aspetti.

Mentre la proposta di legge Delrio ed altri prefigura un modello effettivamente universale, rivolto a tutti i figli minorenni, l’articolo 42 del disegno della Legge di Bilancio adotta in modo parziale tale impostazione, limitando l’assegno solo per i nuovi nati nel 2020 e differenziandone l’importo in tre fasce. Non è chiaro come il legislatore intenda far evolvere l’assegno unico portandolo a regime (evitando diventi l’ennesima azione estemporanea), facendolo diventare davvero universale (rivolto a tutti i bambini), dandogli continuità nel tempo (fino al raggiungimento della maggiore età) ed equo rispetto alla situazione delle famiglie. Coerentemente con ciò sarebbe, in primo luogo, importante dare rassicurazione alle famiglie che tali importanti risorse saranno il frutto del riordino delle misure parziali esistenti a sostegno delle famiglie, ma non proverranno da tagli al sostegno dei redditi (es. cuneo fiscale) e che si tratta di una misura strutturale e stabile, che prevede innanzitutto che i nuovi nati del 2020 potranno contare su un trasferimento quantomeno fino ai 18 anni. Inoltre, andrebbero meglio specificati tempi e modi di estensione anche a tutti gli altri minori già nati prima del 2020, quindi della più ampia riforma dei trasferimenti legati alla presenza di figli.

Infine, se si ritiene necessario utilizzare un criterio di reddito per graduare il beneficio, occorre fare attenzione a che questo non si presti a nuove iniquità.

Servizi per cui può essere utilizzata la dote

L’articolo 42 del Disegno di legge di bilancio 2020 individua forme di supporto economico pagamento di rette relative alla sola frequenza di asili nido pubblici e privati. Questa impostazione ci sembra più corretta di quella che si trova nell’art. 3, comma 1, lettera a della proposta di legge Delrio ed altri, ove si dice: “a) istituzione di una dote unica per un ammontare fino a un massimo di 400 euro per dodici mensilità, per ogni figlio fino ai tre anni di età, utilizzabile per il pagamento di servizi per l’infanzia quali asili nido, micronidi, baby parking e personale direttamente incaricato”.

A nostro parere, infatti, questa formulazione presenta alcune criticità.

In primo luogo, ed è la questione più importante, il ventaglio di “servizi” per cui può essere spesa la dote è troppo ampio e generico. Se l’obiettivo della dote è il sostegno alla genitorialità e l’ampliamento delle possibilità educative dei bambini, sembra ragionevole indirizzare meglio l’utilizzo di questo strumento. Baby parking e baby-sitter, pur con eccezioni, difficilmente garantiscono sia possibilità di confronto e consulenza ai genitori sui propri compiti e problemi, sia opportunità socio-educative ai bambini. E’ una questione cruciale alla luce dell’importanza che ormai tutti gli esperti – dai pediatri agli psicologi dell’età evolutiva – riconoscono ai primi tre anni di vita per lo sviluppo futuro dei bambini, sottolineando il ruolo cruciale che in questa prospettiva hanno sia il rapporto con i genitori, sia la frequenza di servizi per l’infanzia di qualità. In questi decenni l’Italia ha raggiunto un livello buono, se non ottimo, di qualità nei propri servizi per l’infanzia grazie al “welfare mix”, costruito attorno alla professionalità, all’attivismo e al rapporto virtuoso fra amministrazioni locali ed organizzazioni di terzo settore e fondato su criteri condivisi di definizione della qualità dei servizi stessi.

È fondamentale che lo strumento della dote si innesti in questo solco e sostenga l’ampliamento di questo modello di servizi per l’infanzia. Occorre evitare il rischio che la dote, invece che sostenere il modello di servizi di qualità che si è diffuso in Italia in questi decenni, incentivi le famiglie a scelte in cui la necessità custodialistica dei propri figli prevalga su quella della crescita socio-educativa di qualità del bambino, con un ricorso più massiccio che in passato a strumenti quali il baby parking e il baby-sitting. Sarebbe paradossale se uno strumento pensato per sostenere la genitorialità tramite servizi finisca per spostare il baricentro da un sistema di servizi socio-educativi di qualità, quale quello attuale, ad un sistema in cui gli interventi custodialistici, magari offerti da singole persone o da organizzazioni senza personale professionale, prendano il sopravvento.

In questa ottica appare necessario che la dote venga spesa solo all’interno dell’alveo dei servizi socio-educativi per l’infanzia, pubblici e privati, che fin qui sono stati certificati per la loro qualità, accreditati a livello locale ma sulla base di criteri condivisi a livello nazionale (cfr. art. 2 del decreto 65 sul sistema integrato di istruzione e educazione 0-6 anni).

In secondo luogo, e questa osservazione vale anche per l’art. 42 della Legge di bilancio, andrebbe esplicitato maggiormente che l’accesso alla dote è indipendente dallo status occupazionale dei genitori, in particolare della madre. La dote è, infatti, importante anche per le famiglie in cui uno dei due genitori o entrambi non lavorano, sia perché consente di ampliare le risorse educative per i bambini, sia perché è uno strumento utile per mettere le famiglie nella condizione di cercare una occupazione e conciliare lavoro e cura una volta trovato. In altri termini, oltre che per fini di sviluppo socio-educativo del bambino, la dote deve avere l’obiettivo di aiutare i genitori a conciliare, intervenendo non solo in favore di quelli che già lavorano ma anche di quelli che vorrebbero lavorare ma hanno difficoltà a farlo, anche per motivi legati ai compiti di cura dell’infanzia.

È utile ricordare, a questo proposito, che la Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, di cui il prossimo 20 novembre ricorrerà il trentennale dall’approvazione da parte dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, prevede – tra le altre cose – che “gli Stati parte si impegnino ad adottare tutti i provvedimenti legislativi, amministrativi e altri, necessari per attuare i diritti riconosciuti dalla presente Convenzione” (Articolo 4). L’Italia ha ratificato la Convenzione con legge n.176 del 1991 impegnandosi nel rispetto dei diritti previsti e nella verifica periodica degli stessi. Le ultime Osservazioni Conclusive, rivolte nel febbraio del 2019 dal Comitato ONU sui diritti dell’infanzia al nostro Paese, mettono in particolare rilievo l’importanza dell’allocazione delle risorse per politiche e programmi a sostegno dell’infanzia e dell’adolescenza e per ridurre la povertà minorile (par.8 e par.30).

Infine, la scelta di puntare su servizi di qualità pone problemi in un paese quale l’Italia in cui non in tutti i territori sono presenti sufficienti strutture. La dotazione del bonus asili nido (540 milioni) rischia di coprire una platea pari a quella che già usufruisce del servizio (tra pubblico e privato) e di fatto non amplia l’offerta di posti. Dato questo ordine di problemi, occorre innanzitutto prevedere come possano fare parte di questa rete anche i micronidi, i nidi aziendali, o le tagesmutter e figure simili presenti in alcune zone ove è difficile organizzare un nido, purché siano, appunto, certificate e supervisionate per la loro qualità educativa, e non operino come puri servizi custodialistici. Allo stesso tempo, è necessaria una azione molto più strutturale e di ampio respiro per iniziare ad ovviare a tale problema. A tal fine, l’Alleanza suggerisce anche una politica di sostegno pubblico all’espansione dell’offerta dei servizi (si veda il punto sotto). Si suggerisce altresì di vigilare affinché si superino gli ostacoli burocratici all’utilizzazione dei fondi già assegnati per la creazione di Poli per l’infanzia 0-6, e si dia seguito all’ implementazione della strategia educativa sottesa alla creazione del sistema educativo integrato 0 – 6 anni, secondo quanto previsto nella Legge de La Buona scuola.

Necessità di integrare l’assegno unico e la dote servizi con l’investimento in servizi

Alla luce delle osservazioni sopra formulate, proprio se si vuole investire in servizi di qualità tramite la dote, occorre anche prevedere all’interno della proposta di legge Delrio ed altri un investimento finanziario pubblico consistente per sostenere l’espansione dell’offerta di questi servizi.

L’obiettivo di sostenere la genitorialità e le opportunità educative dei bambini, infatti, non può essere affrontato solo dal lato della domanda (tramite la dote data alle famiglie e l’assegno universale). Richiede anche un sostegno pubblico più robusto dal lato dell’espansione dell’offerta. I dati più recenti provenienti da varie fonti (da Istat a Save the Children) segnalano che in Italia solo poco più di un bambino su dieci ha posto in un nido pubblico o convenzionato, con picchi negativi in alcune regioni, per lo più nel Mezzogiorno, dove solo il 2-3% dei bambini dagli zero ai tre anni ha accesso a un nido pubblico. La situazione è solo in parte compensata da strutture private (incluse quelle aziendali), stante che, secondo i dati di Openpolis, il livello di copertura complessivo in Italia è del 20%, che sale al 24% se si considerano anche le sezioni primavera nelle scuole per l’infanzia. La stragrande maggioranza dei bambini (e dei loro genitori) quindi, è esclusa da questo servizio, con effetti negativi non solo sulla opportunità dei genitori di rimanere nel mercato del lavoro, ma sulle pari opportunità di crescita socio-educativa tra bambini. A ciò si aggiungano le enormi disparità regionali. Le regioni del Nord offrono un posto al nido ad un bambino ogni quattro, molte regioni del Sud non riescono ad offrirlo neppure ad un bambino ogni dieci.

Occorre, quindi, indicare nella proposta di legge di Delrio ed altri, e se possibile esplicitare meglio questo aspetto anche nel Disegno di legge di bilancio 2020, la volontà di un sostegno economico all’ampliamento dell’offerta di servizi di qualità per la prima infanzia, prevedendo interventi finanziari per l’ampliamento sia dell’offerta diretta di servizi pubblici che di quelli offerti dal terzo settore, in collaborazione con le amministrazioni locali.

Si propone di includere nei servizi sopra indicati sui quali investire anche quelli relativi alla ristorazione e al trasporto scolastici, sia per la scuola dell’infanzia che per la scuola primaria. Infatti i bambini esclusi da questo servizio sono ancora oggi molti (49% nella primaria) e dislocati soprattutto nelle regioni del Sud.

Per quali età?

La questione si pone, ovviamente, diversamente nel caso dell’assegno unico e della dote servizi.

Per quanto riguarda l’assegno unico, si può valutare se limitarlo solo ai figli minorenni, eventualmente rendendolo più corposo, o ai maggiorenni fino a 24 anni, purché siano ancora in formazione. Nel caso dei figli disabili, occorrerebbe specificare “senza limiti di età”.

Si può anche osservare che la lettera d) comma 1 art. 2 della proposta Delrio et al.- “mantenimento degli importi in vigore per coniuge e altri famigliari a carico” – non è chiaro a quali importi si riferisca, al di fuori delle detrazioni fiscali, coscienti del fatto che queste ultime presentano il consueto svantaggio per gli incapienti, che non possono fruire di alcuna detrazione.

Per quanto riguarda la dote servizi, la sua estensione sino al compimento del quattordicesimo anno di età rischia di suggerire implicitamente l’idea che si tratti di una misura “custodialistica”, visto che dai tre anni in su i bambini sono a scuola. Se l’obiettivo è sostenere la conciliazione lavoro-famiglia anche dopo l’entrata dei figli nel sistema scolastico, meglio allora forse rafforzare il tempo pieno nelle scuole, che avrebbe il duplice effetto aggiuntivo di rafforzare le opportunità educative per i bambini e di creare posti di lavoro di qualità nel sistema dell’istruzione. In alternativa, si potrebbe vincolarne l’uso alla partecipazione ad attività sportive, o di apprendimento della musica, o teatro, cioè ad attività extracurriculari la cui importanza per lo sviluppo dei bambini è stata individuata come molto importante e da cui spesso sono esclusi i bambini dei ceti economicamente più modesti. Ma, anche qui, potrebbe esserci un problema di offerta (e di accreditamento). Altrimenti, meglio concentrare le risorse sui bambini sotto i tre anni.

Mancata messa a fuoco della situazione delle lavoratrici autonome o con contratti a tempo determinato

Teoricamente tutte le lavoratrici hanno diritto, in caso di maternità a un’indennità economica in sostituzione della retribuzione. Essa è regolata principalmente con il “Testo Unico per la tutela e il sostegno della maternità e della paternità” emanato dal d.lgs. n.151/2001, successivamente modificato per includere le nuove tipologie di lavoratrici.

In linea generale, se il rapporto di lavoro è alle dipendenze si ha diritto all’indennità se si è occupate (o coperte da ammortizzatori sociali per la disoccupazione) all’inizio del congedo. Se invece si è lavoratrici autonome, il diritto all’indennità è subordinato a un pregresso contributivo, che può essere definito in giornate (lavoro agricolo e lavoro dello spettacolo) o in ammontare di contributi versati.
Sono rimaste differenze significative, sia nella capacità di supplire appieno alla mancanza di reddito connessa alla gravidanza, sia nel sistema di informazioni e nella prontezza degli interventi.
Per chi non è una lavoratrice dipendente, ottenere l’indennità non è mai qualcosa di automatico. È mancata un’integrazione organica delle aggiunte successive, con diverse conseguenze che si stanno facendo sentire sempre di più in un mercato del lavoro fluido e frammentato, in cui spesso è necessario svolgere più lavori (più lavori autonomi o anche lavori che sono sia dipendenti sia autonomi).
Le gestioni restano infatti rigidamente distinte: quanto versato in una gestione non serve nel momento in cui si passa a un’altra gestione, né può essere cumulato se si è in parallelo su due gestioni. Chi ha un lavoro instabile è esclusa dalla indennità, o ne ha una irrisoria. I problemi non riguardano, infatti, solo le non dipendenti, ma anche le lavoratrici dipendenti con contratti a termine, che sono tutelate solo se hanno un contratto attivo all’inizio del congedo. Per aver diritto all’indennità è necessaria una vera e propria programmazione della gravidanza, per cogliere l’opportunità di un periodo tutelato.

Va considerato che solo circa il 30% delle donne sotto i 30 anni e circa il 45% di quelle sotto i 40 anni hanno un rapporto di lavoro dipendente stabile. Quindi la maggioranza delle donne in età feconda gode di scarsa o nulla tutela se decide di avere un figlio.

Occorre quindi metter mano ad una revisione del sistema di tutela della maternità che preveda, accanto alla la predisposizione di un’informazione efficiente e pervasiva e alla semplificazione delle procedure: 1) l’ampliamento della copertura dell’indennità di maternità, con l’istituzione di una indennità di maternità minima (5 mesi con una indennità pari a 1,5 volte assegno sociale) per tutte le mamme o almeno per tutte le mamme lavoratrici; 2) la cumulabilità dei versamenti e quindi delle indennità maturate su più casse previdenziali; 3) l’estensione a tutte le tipologie di lavoratori/lavoratrici del congedo di 10/11 mesi, da suddividere tra i due genitori.

Durata del congedo obbligatorio di paternità

Aver previsto in legge un allungamento del periodo di congedo di paternità fino a 7 giorni è un importante passo avanti. Sarebbe fondamentale, però, prevedere in prospettiva, da un lato, la sua estensione anche ai padri lavoratori autonomi, dall’altro, un allungamento della misura a 10 giorni, come indicato nella Direttiva europea sulla conciliazione vita-lavoro. Il tema della conciliazione non è risolvibile solo dal lato dei trasferimenti e dell’offerta dei servizi. Richiede una migliore redistribuzione dei compiti di cura all’interno della coppia. Un congedo più lungo per i padri rappresenta un sostegno in tal senso.

Ampliamento del congedo parentale per i genitori

Andrebbe in prospettiva potenziato, ampliato e meglio retribuito il congedo parentale, che rappresenta uno strumento di conciliazione particolarmente importante per sostenere i genitori nel dedicare tempo di cura ai propri figli (neonati ma anche adolescenti), tutelare i livelli occupazionali femminili in occasione di una maternità e promuovere culturalmente e realmente le pari opportunità.

Allo stesso tempo, sarebbe importante tornare a prevedere un sistema di incentivi per la contrattazione collettiva, che innovi nel campo di permessi e congedi a motivo della genitorialità, in copertura retributiva o durata, anche sulla base delle esperienze maturate in questi anni.



Parere pubblicato su welforum.it il 18 novembre 2019:
L’Alleanza per l’Infanzia sulle proposte di legge a sostegno delle famiglie

Bibliografia

Segnaliamo anche i seguenti articoli usciti su welforum.it sullo stessa tema:

Stefano Lepri, Assegno unico e universale per i figli a carico. Idee guida e simulazioni del disegno di legge in discussione al Senato, 19 ottobre 2017.

Chiara Saraceno, In merito alle misure proposte a sostegno dei figli a carico. Parere sulla proposta di legge Del Rio, Lepri ed altri, 10 ottobre 2019.


Parere sulla proposta di legge Del Rio, Lepri e altri: “Delega al Governo per riordinare e potenziare le misure a sostegno dei figli a carico attraverso l’assegno unico e la dote unica per i servizi”

di Chiara Saraceno

Premessa
L’obiettivo della proposta di legge, razionalizzare il frammentato sistema di trasferimenti legati alla presenza di figli per migliorarne l’efficacia e l’equità, anche al fine di un sostegno alle scelte di fecondità, è totalmente condivisibile. Le criticità e inefficienze della attuale situazione, sinteticamente riassunte nella nota di presentazione alla proposta di legge, sono state oggetto da tempo di analisi da parte di studiosi e di associazioni della società civile e vi è un consenso diffuso e trasversale sulla necessità di riforma.  Analogamente condivisibili sono in linea di principio i due strumenti individuati a questo scopo, l’assegno unico e la dote per l’utilizzo di servizi. Con il primo si aiutano le famiglie, tutte, non solo quelle appartenenti a determinate categorie, a fronteggiare il costo dei figli, riducendo il rischio che la scelta di avere un figlio (in più) produca forti squilibri nel bilancio famigliare o addirittura causi la caduta in povertà. È opportuno ricordare a questo proposito che l’Italia è uno dei paesi dell’Unione Europea con più forte incidenza della povertà minorile e dove sono particolarmente a rischio di povertà le famiglie con più figli. Con il secondo, il voucher servizi, si aiutano i genitori nei propri compiti di cura ed educativi, sia favorendo la conciliazione tra lavoro e famiglia, sia offrendo possibilità di confronto e consulenza, sia allargando i contesti e le relazioni educative per i bambini.
Le osservazioni e gli appunti critici che seguono vanno quindi collocati all’interno di questa condivisione di principio. Riguardano essenzialmente tre aspetti: a) i criteri di individuazione del reddito in base al quale modulare vuoi l’assegno, vuoi la dote, b) il range di servizi per cui può essere utilizzata la dote, c) la necessità di integrare questi due strumenti – assegno unico e dote – con un sostanzioso investimento in servizi educativi. Altre osservazioni riguardano le età dei figli considerate ai fini della erogazione rispettivamente dell’assegno e della dote.

Criteri di individuazione del reddito
Non entro qui nel dibattito se sia più opportuno avere misure uguali per tutti, a prescindere dal reddito o se, all’interno di una logica universalistica e non categoriale, sia più opportuno graduare il valore della misura (assegno e dote) in base al reddito della famiglia. Ci sono buone ragioni per sostenere sia l’una sia l’altra posizione, anche dal punto di vista dell’universalismo e dell’equità. Accettando la scelta dei proponenti di graduare le due misure in base al reddito famigliare, in modo da renderle più corpose per i redditi più bassi accentuandone l’efficacia redistributiva, le mie osservazioni riguardano i criteri. Nello specifico:

  1. Non è chiaro perché si adottano due criteri diversi per le due misure: il reddito per l’assegno unico, l’ISEE per la dote. L’introduzione dell’ISEE per tutte le misure legate ad un test dei mezzi è stato un processo lungo e faticoso e non ancora compiuto. Non mi sembra il caso che in una stessa legge che si propone di razionalizzare l’esistente per arrivare a due sole misure che hanno a che fare con la stessa platea e con bisogni complementari si introduca di muovo una differenziazione nei criteri/strumenti di individuazione delle risorse disponibili.
  2. Ancora meno chiara, e francamente peculiare, è la scelta, nel caso dell’assegno unico, non solo di considerare solo il reddito e non l’ISEE, ma di considerare soltanto il reddito individuale più alto presente in famiglia. Ciò è in palese contrasto con ogni principio di equità. Una famiglia con un unico reddito, ad esempio, sarebbe penalizzata rispetto ad una famiglia con due redditi, entrambi inferiori all’unico reddito della prima, ma con una somma totale più alta. Inoltre, non c’è alcun riferimento all’ampiezza della famiglia, come se non facesse differenza il numero di persone che di quel reddito devono vivere.

Alla luce di queste considerazioni, mi sembrerebbe più opportuno fare riferimento all’ISEE per entrambe le misure o, in subordine, nel caso si ritenga per qualche ragione più opportuno considerare il solo reddito per l’erogazione dell’assegno, la parte reddituale dell’ISEE, che considera sia tutti i redditi, sia l’ampiezza della famiglia, con due avvertenze. La prima è che è opportuno considerare l’ISEE (o la sua parte reddituale) corrente e non quello basato su dati – di reddito e ricchezza – relativi ai due anni precedenti, che è uno degli aspetti critici  dell’ISEE più volte segnalato. La seconda è che nel definire la gradualità della diminuzione del beneficio al salire dell’ISEE, si eviti sia di creare scalini troppo ripidi (con aliquote implicite molto alte) sia di erogare agli scaglioni più alti cifre così irrisorie da non essere in alcun modo significative. Sono questioni da tenere presenti quando si tratterà di scrivere i decreti delegati.

Servizi per cui può essere usata la dote
All’art. 3, comma 1 , lettera a si dice “a) istituzione di una dote unica per un ammontare fino a un massimo di 400 euro per dodici mensilità, per ogni figlio fino ai tre anni di età, utilizzabile per il pagamento di servizi per l’infanzia quali asili nido, micronidi, baby parking e personale direttamente incaricato”.
A mio parere questa formulazione presenta due problemi.

  1. In primo luogo, ed è la questione più importante, il ventaglio di “servizi” per cui può essere spesa la dote è troppo ampio e generico, senza alcuna indicazione di criteri di qualità. Se l’obiettivo è il sostegno alla genitorialità e l’ampliamento delle possibilità educative dei bambini, sembra ragionevole indirizzare l’utilizzo di questa dote a questo scopo. Baby parking e babysitter, pur con eccezioni, difficilmente garantiscono sia possibilità di confronto e consulenza ai genitori sui propri compiti e problemi, sia opportunità educative ai bambini. E’ una questione cruciale alla luce dell’importanza che ormai tutti gli esperti – dai pediatri agli psicologi dell’età evolutiva – riconoscono ai primi tre anni di vita e in particolare ai primi mille giorni per lo sviluppo futuro dei bambini, sottolineando il ruolo cruciale che in questa prospettiva ha sia il lavoro con i genitori, sia la frequenza di un nido di qualità. Lo confermano anche i dati dei test PISA sulle competenze cognitive dei quindicenni: a parità di condizioni economiche famigliari svantaggiate, aver frequentato almeno un anno al nido riduce il rischio di non raggiungere le competenze di base di quell’età. Inoltre, questi studi mostrano che, se i servizi di buona qualità aiutano i bambini a crescere, quelli di non buona qualità non sortiscono tanto un effetto nullo quanto un effetto negativo: in altri termini, è meglio per un bambino rimanere affidato alle sole cure informali familiari piuttosto che frequentare un servizio di scarsa qualità educativa. Sarebbe, quindi, necessario restringere la possibilità di spendere la dote all’utilizzo di servizi per l’infanzia pubblici o privati appartenenti ad una rete di servizi certificati per la loro qualità, accreditati a livello locale ma sulla base di criteri condivisi a livello nazionale. Possono fare parte di questa rete anche i micronidi, i nidi aziendali, o le tagesmutter e simili presenti in alcune zone ove è difficile organizzare un nido, purché siano, appunto, certificate e supervisionate per la loro qualità educativa, e non operino come puri servizi custodialistici.
    Aggiungo che andrebbe esplicitato che la “dote”, pur subordinata nella sua entità all’ISEE, è indipendente dallo status occupazionale dei genitori, in particolare della madre. Anche una madre casalinga ha diritto a ricevere sostegno alla genitorialità e anche i figli di madre casalinga hanno diritto ad ampliare le proprie opportunità educative.
  2. La nota carenza di servizi per la prima infanzia, unita all’assenza del requisito della certificazione di qualità educativa, presenta il concreto rischio che la disponibilità di una dote, da un lato incentivi l’aumento di un’offerta di servizi di mercato poco o per nulla attenta alla qualità, dall’altro incoraggi l’aumento delle rette.

Necessità di integrare l’assegno unico e la dote servizi con l’investimento in servizi
Alla luce delle due osservazioni sopra formulate, mi sembra che, oltre a restringere l’utilizzo della dote a servizi certificati e accreditati, occorra anche prevedere all’interno di questa proposta di legge un investimento per aumentare l’offerta di questi servizi, a partire dall’offerta pubblica.
L’obiettivo di sostenere la genitorialità e le opportunità educative dei bambini, infatti, non può essere affrontato solo dal lato della domanda. Va affrontato anche dal lato dell’offerta. Gli ultimi dati di Save the Children  segnalano che in Italia un bambino su dieci non ha posto in un nido pubblico, con picchi negativi in alcune regioni, per lo più nel Mezzogiorno, dove solo il 2-3% dei bambini dagli zero ai tre anni ha accesso a un nido pubblico. La situazione è solo in parte compensata dai nidi privati (inclusi quelli aziendali) o convenzionati, stante che, secondo i dati di Openpolis, il livello di copertura complessivo in Italia è del 20%, che sale al 24% se si considerano anche le sezioni primavera nelle scuole per l’infanzia. La stragrande maggioranza dei bambini (e dei loro genitori) quindi, è esclusa da questo servizio, con effetti negativi non solo sulla opportunità delle madri di rimanere nel mercato del lavoro, ma sulle pari opportunità tra bambini. A ciò si aggiungano le enormi disparità regionali. Le regioni del nord offrono un posto al nido ad un bambino ogni quattro, alcune regioni del Sud (con l’eccezione della Sardegna che si avvicina alle regioni del Nord) non riescono ad offrirlo neppure ad un bambino ogni dieci.

Occorre, quindi, sviluppare e prevedere nella legge un sostegno economico all’ampliamento dell’offerta di servizi di qualità per la prima infanzia.

Per quali età?
La questione si pone, ovviamente, diversamente nel caso dell’assegno unico e della dote servizi.
Per quanto riguarda l’assegno unico, si può valutare se limitarlo solo ai figli minorenni, eventualmente rendendolo più corposo, o ai maggiorenni fino a 24 anni, purché siano ancora in formazione. Nel caso dei figli disabili, occorrerebbe specificare “senza limiti di età”.

A margine osservo che la lettera d) comma 1 art 2  – “mantenimento degli importi in vigore per coniuge e altri famigliari a carico” – non è chiaro a quali importi si riferisca, al di fuori delle  detrazioni fiscali e che queste ultime presentano il consueto svantaggio per gli incapienti, che non possono fruire di alcuna detrazione.

Per quanto riguarda la dote servizi, la sua estensione sino al compimento del quattordicesimo anno di età rivela l’implicita idea che si tratti di una misura “custodialistica”, destinata a baby sitter, visto che dai tre anni in su i bambini sono a scuola. Se l’obiettivo è sostenere la conciliazione lavoro-famiglia, meglio rafforzare il tempo pieno scolastico di qualità, che avrebbe il duplice effetto aggiuntivo di rafforzare le opportunità educative per i bambini e di creare posti di lavoro di qualità nel sistema scolastico. In alternativa, si potrebbe vincolarne l’uso alla partecipazione ad attività sportive, o di apprendimento della musica, o teatro, cioè ad attività extracurriculari di cui è stata individuata  l’importanza per lo sviluppo dei bambini e da cui spesso sono esclusi i bambini dei ceti economicamente più modesti. Ma, anche qui, potrebbe esserci un problema di offerta (e di accreditamento). Altrimenti, meglio concentrare le risorse sui bambini sotto i tre anni.

Documento presentato in audizione alla Commissione Affari speciali della Camera da Chiara Saraceno che riporta il parere sulla proposta di legge Del Rio, Lepri e altri, n. 687 (XVIII legislatura).