Osservazioni di Alleanza per l’Infanzia sugli art. 4 e 5 del disegno di legge “Deleghe al Governo per il sostegno e la valorizzazione della famiglia”.

20 novembre 2020

Introduzione

Una premessa generale è che il sostegno alla genitorialità e alla conciliazione devono avvenire principalmente tramite l’offerta di servizi di qualità e la predisposizione di organizzazioni e ambienti di lavoro amichevoli nei confronti di chi ha responsabilità di cura. Lo stesso vale anche nel caso in cui queste responsabilità si riferiscano a familiari parzialmente o del tutto non autosufficienti a causa di disabilità o grave fragilità dovuta all’età anziana, una questione apparentemente assente da questo disegno di legge.

Si ricorda, inoltre, che Alleanza per l’Infanzia ha già espresso il proprio parere sull’Art. 2 (introduzione dell’assegno unico) e sulla proposta di legge delega testo unificato AC 687 ad esso collegato, che per comodità si allega.

Art. 4 – congedi

Per quanto riguarda la questione dei congedi (art. 4), è opportuno prendere in considerazione i seguenti elementi:

Congedo di maternità.

L’analisi dei dati INPS mostra una diminuzione delle richieste di congedo dal 2012. Ciò è la conseguenza dell’andamento a) delle donne in età fertile; b) della fecondità; c) dell’occupazione femminile in termini sia di partecipazione, sia di distribuzione tra i vari tipi di contratto. Un’analisi più dettagliata (si veda il cap. 5 del rapporto Annuale INPS 2020), mostra che, nonostante l’importanza di a) e b), gioca un ruolo importante anche la tipologia contrattuale. La diminuzione delle richieste di congedo (quindi di maternità) sembra infatti dovuta in larga parte alla diminuzione delle lavoratrici impiegate dipendenti a tempo indeterminato che, pur essendo ancora la maggioranza di tutte le lavoratrici, sono la categoria contrattuale che relativamente più è diminuita a fronte di un aumento della occupazione femminile (una crescita che ha riguardato prevalentemente contratti temporanei). Una diminuita sicurezza delle condizioni di lavoro tende anche a ridurre la propensione a fare un figlio.

Si osserva, inoltre, che vi è tuttora una grande difformità sia nella capacità di supplire appieno alla mancanza di reddito connessa alla gravidanza, sia nel sistema di informazioni e nella prontezza degli interventi. In linea generale, se il rapporto di lavoro è alle dipendenze, si ha diritto all’indennità se si è occupate (o coperte da ammortizzatori sociali per la disoccupazione) all’inizio del congedo. Le lavoratrici con contratti a termine, quindi, sono tutelate solo se hanno un contratto attivo all’inizio del congedo.  Se invece si è lavoratrici autonome, il diritto all’indennità è subordinato a un pregresso contributivo, che può essere definito in giornate (lavoro agricolo e lavoro dello spettacolo) o in ammontare di contributi versati.  Per chi non è una lavoratrice dipendente, quindi, ottenere l’indennità non è mai qualcosa di automatico. È mancata un’integrazione organica delle aggiunte successive, con diverse conseguenze che si stanno facendo sentire sempre di più in un mercato del lavoro fluido e frammentato, in cui spesso è necessario svolgere più lavori (più lavori autonomi o anche lavori che sono sia dipendenti, sia autonomi). Le gestioni restano infatti rigidamente distinte: quanto versato in una gestione non serve nel momento in cui si passa a un’altra gestione, né può essere cumulato se si è in parallelo su due gestioni. Chi ha un lavoro instabile ne è esclusa o ha una indennità irrisoria. Si rilevano differenze anche nelle modalità di erogazione, puntuali per le dipendenti, generalmente in forte ritardo per le altre.

Congedo di paternità

Al momento attuale è ottenibile solo dai lavoratori dipendenti nel settore privato. Analizzando i dati INPS, si osserva un andamento in crescita delle richieste, in controtendenza con il congedo di maternità, a indicare un consolidamento della sua legittimazione culturale (non è obbligatorio prenderlo). Esse riguardano nella grande maggioranza lavoratori dipendenti a tempo indeterminato, il cui numero, a differenza che per le donne, è aumentato negli anni sul totale degli occupati maschi. Sono aumentati soprattutto, molto in termini assoluti e relativi, i congedi chiesti dagli operai qualificati. Confrontando il trend dell’occupazione con quello dei benefici erogati, si evince come la crescita dei benefici non sia solamente dovuta alla crescita del numero di padri lavoratori. Vi è dunque anche una crescita nella propensione a fruire del beneficio da parte dei padri italiani, anche se rimangono in numero molto ridotto rispetto al totale delle nascite.

Va rilevato che la possibilità di estendere di un giorno il congedo di paternità se la madre rinuncia ad un giorno di congedo di maternità è poco fruito (nel 2018 l’hanno utilizzata 4524 padri tra i 123.142 che hanno preso il congedo). Ciò è probabilmente dovuto anche al fatto che non tutti i padri hanno una compagna lavoratrice che può cedere un giorno del proprio congedo.  

Purtroppo i dati disponibili non consentono di verificare né questo particolare punto, né se la propensione a prendere il congedo di paternità vari a seconda dello status occupazionale della madre e del numero d’ordine del figlio/a neonato/a.

Rimane, inoltre, aperta la questione della inadempienza del Ministero della PA che non ha ancora approvato la norma che consente anche ai dipendenti della PA di accedere al congedo di paternità e l’esclusione dallo stesso dei lavoratori autonomi e nella Gestione separata.

Congedo parentale

L’INPS ha erogato 2.163.930 congedi nel periodo 2012-2018, di cui 1.830.111 a favore delle madri e 333.819 dei padri. Dalle analisi descrittive si evince un leggero trend crescente nell’erogazione dei benefici, sia a favore delle madri sia, in maggior misura, a favore dei padri, probabilmente a motivo della maggiore flessibilità introdotta negli anni nell’utilizzo dei congedi (part time verticale e orizzontale) e soprattutto dell’innalzamento dell’età dei figli per i quali può essere chiesto.

I congedi parentali sono richiesti, da padri e madri, più nel Nord-Ovest, meno nel Mezzogiorno (a parità di tasso di occupazione) e più tra gli ultra34enni. Al contrario, padri e madri più giovani mostrano un tasso decrescente di utilizzo (anche perché sono maggiormente concentrati nei contratti di lavoro a tempo determinato). Sono quindi vulnerabili non solo a un mancato rinnovo nel caso di assenze protratte, o brevi e ripetute, ma anche alla forte perdita di reddito che comporta il congedo parentale.

Incoraggiare la condivisione tendenzialmente paritaria del congedo parentale e un suo uso flessibile, oltre a garantire ai bambini un tempo di cura genitoriale lungo, contribuirebbe a ridurre in parte la child penalty pagata dalle madri rispetto sia ai padri, sia alle non madri, in termini di ore e settimane lavorate nel corso degli anni, quindi di salario e di ricchezza pensionistica. Favorirebbe anche una maggior condivisione della cura dei figli lungo tutto il periodo della crescita, a vantaggio dei figli.

Nel Mezzogiorno (stante il basso tasso di occupazione femminile) sono comparativamente più i padri che le madri a prendere il congedo genitoriale.

Non è chiaro perché il congedo parentale sia di durata e periodo di fruibilità diverse per le lavoratrici/lavoratori dipendenti rispetto a quelli autonomi e a quelli iscritti alla gestione separata.  Per i primi è di 10 mesi complessivi per la coppia, di cui nessun dei genitori può prenderne più di 6, elevabili a 11 mesi complessivi se il padre prende almeno tre mesi consecutivi, utilizzabili entro il 12esimo anno di età, per i secondi (autonomi e gestione separata) sono sei mesi complessivi, fruibili entro i primi tre anni di vita.

Anche in questo caso, la mancanza di dati sulla composizione familiare dei beneficiari e sullo status occupazionale dell’eventuale partner non consente di verificare quali contesti familiari favoriscano, o siano più propensi alla condivisione dei congedi. Per avere questi dati, importanti per il disegno e il monitoraggio delle politiche, occorrerebbe verificare con l’INPS la possibilità di raccogliere questo tipo di dati tramite la documentazione che viene richiesta, e/o con l’ISTAT e l’INPS insieme la possibilità di collegare vare fonti di dati.

Permessi legge 104 e congedo straordinario

I lavoratori dipendenti che assistono un/a figlio/a con disabilità grave possono fruire del prolungamento del congedo parentale o in alternativa di 2 ore al giorno fino ai 3 anni; del prolungamento del congedo parentale o di 3 giorni al mese di permesso per figli in età tra 3 e 12 anni; di 3 giorni al mese per figlio di età superiore ai 12 anni o parente fino al 2° grado; di massimo 2 anni di congedo straordinario retribuito. L’indennità è al 100% fino a un massimale. A differenza dei congedi parentali, questo tipo di congedi sembra fruito in modo equilibrato tra uomini e donne. Nel 2018, hanno fruito di permessi ex lege 104 213.943 uomini e 202.029 donne, di congedo straordinario 22.967 uomini, 32.562 donne.

Art. 5 – sostegno occupazione donne e armonizzazione

Per quanto riguarda il sostegno all’occupazione delle donne e l’armonizzazione dei tempi di vita e di lavoro (art. 5), va innanzitutto osservato che, benché le difficoltà di conciliazione e il modo sproporzionato con cui queste vengono scaricate sulle donne costituiscano un vincolo importante alla partecipazione al mercato del lavoro, esse non esauriscono le cause della ridotta partecipazione femminile al mercato del lavoro. Queste, infatti, hanno a che fare sia con le caratteristiche della domanda di lavoro a livello nazionale e territoriale, sia con l’esistenza di stereotipi che non solo favoriscono le discriminazioni nel mercato del lavoro, ma scoraggiano le ragazze a intraprendere percorsi di studi tradizionalmente maschili (ad esempio nelle discipline STEM).

Non si può pretendere che la complessa questione del sostegno all’occupazione femminile possa essere affrontata in maniera esaustiva nell’ambito di un disegno di legge che ha per tema il sostegno e la valorizzazione della famiglia.

Nell’ambito di questo disegno di legge sembra piuttosto opportuno concentrare l’attenzione sui problemi di conciliazione famiglia-lavoro sperimentati da chi ha forti responsabilità di cura familiare, i genitori con figli piccoli (o chi desidera averne) e in particolare le madri, stante la prevalente divisione del lavoro, e coloro che hanno familiari gravemente non autosufficienti.

È infatti indubbio che la questione della conciliazione famiglia-lavoro rivesta un ruolo importante per le donne con responsabilità familiari. Basti pensare ai dati ISTAT che segnalano come ci sia un 20% strutturale di donne che esce dal mercato del lavoro per motivi di famiglia, ai dati dell’Ispettorato del lavoro che indicano che oltre il 70% delle dimissioni volontarie è di donne per cause di maternità e, infine, alla recentissima analisi dei dati INPS che documenta i consistenti costi di medio e lungo (a 15 anni) periodo per le donne, in termini di salario e di ricchezza pensionistica, della maternità non solo rispetto alla paternità, ma anche rispetto al non avere figli, a causa soprattutto della riduzione delle ore e settimane lavorate e del passaggio al part time.

Per affrontare questa cruciale questione occorre in primo luogo non definirla come un problema delle donne, salvo rischiare di cristallizzare proprio quella divisione del lavoro e delle responsabilità che è causa sia delle difficoltà di conciliazione, sia dei divari tra madri e non madri e tra madri e padri. La questione dei bisogni di tempo, servizi, flessibilità dovuta ai bisogni di chi ha responsabilità di cura deve essere posta come questione che riguarda, deve riguardare, donne e uomini. E le politiche di conciliazione devono mirare a favorire una redistribuzione del lavoro di cura non solo tra famiglia e servizi, ma anche tra donne e uomini (come timidamente si inizia a fare nel caso dei congedi).

In secondo luogo, oltre che sul piano dei servizi e dei congedi, occorre agire anche a livello delle politiche aziendali. Ad esempio, il Rapporto sull’andamento dei premi di produttività del Ministero del Lavoro registra che la decontribuzione per le misure di conciliazione dei tempi di vita e lavoro dei dipendenti dei contratti aziendali e territoriali, al 14 settembre 2020, concerneva 4.461 dichiarazioni, su un numero complessivo di dichiarazioni compilate che è stato di 57.393.  Un numero apparentemente non grande. Ma va segnalato che il Rapporto Welfare Index PMI 2020 riporta che il 63,3% delle PMI ha attuato almeno un’iniziativa dell’area conciliazione tra le misure organizzative, sostegno alla genitorialità e facilitazioni per il lavoro. Anche il Secondo rapporto sulla contrattazione di II° Livello realizzato da CGIL e Fondazione Di Vittorio e l’analogo Rapporto OCSEL della CISL segnalano come le politiche di conciliazione famiglia-lavoro siano una quota, certo piccola (al massimo il 7%), ma in crescita degli accordi aziendali.  Sarebbe opportuno avere un quadro più completo di queste iniziative, dei loro obiettivi e strumenti, delle caratteristiche dei lavoratori e lavoratrici coinvolti. Analogamente, sarà opportuno un monitoraggio, e la messa a disposizione dei dati, dell’esito del bando #conciliamo del Dipartimento per le politiche per le famiglie.

Osservazioni

Sulla base dei dati e dell’analisi sinteticamente sopra riportati, avanziamo le seguenti osservazioni e proposte agli art. 4 e 5 del disegno di legge.

Relativamente all’art. 4 (Delega al Governo per la disciplina dei congedi parentali e di paternità):

  • Va chiarito che cosa s’intenda per ‘flessibilizzazione dei congedi genitoriali’, dato che oggi già possono essere utilizzati in modo molto flessibile.
    • Va chiarito che cosa s’intenda con il comma c, dato che oggi i mesi non cedibili sono 4 su 10.
    • Il Ministro della P.A. deve approvare al più presto la norma che individui e definisca gli ambiti, le modalità e i tempi di armonizzazione della disciplina del congedo di paternità anche ai propri dipendenti che, in assenza di tale norma, al momento ne sono esclusi.
    • Rimane aperta la questione dei congedi (e del loro finanziamento) per le diverse figure di lavoratori/lavoratrici autonomi, non dipendenti, oltre che per gli stessi lavoratori/lavoratrici dipendenti con contratti di lavoro a termine, a volte anche molto brevi.

Per quanto riguarda specificamente le lavoratrici e i lavoratori autonomi e iscritti alla gestione separata si propone che:

  • la durata dei congedi parentali sia di 6 mesi (e non 3) per ciascun genitore, con un massimo di 10 mesi (non 6 mesi come attualmente) per la coppia di genitori, con le stesse condizioni di accesso e di cedibilità previste per i dipendenti;
  • i congedi possano essere fruiti entro i 12 anni e non i 3 anni del figlio;
  • ci sia il riconoscimento del congedo anche in caso di affidamento non finalizzato all’adozione (attualmente agli iscritti alla GS è riconosciuto solo per affidamento preadottivo). Per entrambi si chiedono le stesse condizioni previste per i dipendenti: 6 mesi sino a 12 anni dall’ingresso del bambino in famiglia, entro la maggiore età (non 6 mesi entro 3 anni);
  • ci siano degli extra-congedi nelle situazioni di malattia dei figli sopra i 5 gg., fruibili da entrambi i genitori (sempre al 30%);
  • sia riconosciuto il congedo di paternità nella durata prevista per i lavoratori dipendenti;
  • che venga valutata la praticabilità di rendere possibile il cumulo dei contributi. Attualmente le gestioni rimangono rigidamente distinte e quanto viene versato in una gestione non serve nel momento in cui si passa a un’altra, né può essere cumulato se si è in parallelo su due gestioni;
  • relativamente al finanziamento di queste misure, nel caso degli/delle iscritti/e alla gestione separata non dovrebbe essere necessario aumentare l’attuale livello di contribuzione.  Dalle ultime rilevazioni disponibili risulta che solo la metà di quanto versato per la parte assistenziale (0,72% dell’imponibile) è restituito sotto forma di prestazioni. La situazione va verificata e discussa con le categorie nel caso delle lavoratrici/lavoratori autonomi.
  • Per tutti, va alzato il livello di indennizzazione del congedo parentale, per consentire anche a chi ha redditi modesti di fruirne e per incentivare i padri a utilizzarne una parte.
  • Bene che non si distingua per stato civile dei genitori, ma nulla si dice rispetto ai genitori dello stesso sesso che, anche quando sono riconosciuti come tali da qualche sentenza, hanno diritto al congedo genitoriale solo se sono identificati non solo come genitore biologico, ma come padre o madre, distintamente. Ciò costituisce una discriminazione non solo verso questi genitori, ma verso i loro figli, che in questo modo si vedono riconosciuto un minor diritto al tempo genitoriale.
  • Va definito un termine di tempo entro cui il congedo di paternità viene portato a 10 giorni, e inoltre se viene concepito come obiettivo finale o come una tappa intermedia in vista di ulteriori allungamenti.
  • Per quanto riguarda le 5 ore previste di permesso retribuito per colloqui scolastici per la partecipazione attiva al percorso di crescita (comma 2 lettera b) si chiede di incrementare il monte ore previsto in quanto non è assolutamente sufficiente allo scopo.
  • Nulla si dice circa i congedi per responsabilità familiari diverse dalla cura di figli piccoli (familiari con disabilità, anziani fragili), nonostante la Direttiva europea sui congedi del 2017 vi faccia esplicito riferimento. Un riordino dei congedi dovrebbe tenere in considerazione l’intero ciclo di vita. In questa ottica, un primo passo è l’estensione anche ai lavoratori/lavoratrici autonomi/e e a quelli/e iscritti alla gestione separata dei congedi per la cura di familiari con disabilità o anziani fragili ex lege, n. 104 (che prevede 3 giornate al mese retribuite).

Per quanto riguarda l’art. 5 (Delega al Governo per incentivare il lavoro femminile e l’armonizzazione dei tempi di vita e di lavoro):

Si tratta di un articolo problematico nella concezione, a partire dalla titolazione troppo ambiziosa e che esula dall’ambito di un disegno di legge sul sostegno alle famiglie. Sembra più opportuno titolarlo “Delega al Governo per il sostegno alle lavoratrici e lavoratori con responsabilità di cura e all’armonizzazione dei tempi di vita e di lavoro”.

In quest’ottica, concordiamo con il contenuto del comma 2, lettere a) e  b)

Per quanto riguarda la lettera c) del medesimo comma, ci sembra paradossale incentivare le aziende che osservano i contratti nazionali, come se questo fosse opzionale. Sarebbe più opportuno incentivare quelle aziende che introducono misure che vanno al di là dei contratti nazionali stessi rispetto al tema della conciliazione famiglia-lavoro attraverso la contrattazione di secondo livello.

Le lettere d) ed e) appaiono invece fuori contesto rispetto all’argomento della proposta di legge, mentre sono riduttive rispetto all’obiettivo del sostegno all’occupazione femminile. 

Ulteriori osservazioni sul testo di legge

Va inserita la questione del sostegno, anche nell’ottica della conciliazione e dell’armonizzazione dei tempi di vita, a chi ha responsabilità di cura verso familiari con gravi disabilità e/o non autosufficienti.

Andrebbe introdotta a livello normativo una esplicita richiesta di raccolta di dati all’INPS, eventualmente reintegrando quelli già raccolti, relativamente a) all’utilizzo dei congedi di maternità, paternità, parentali, ex articolo 33, comma 3, legge 5 febbraio 1992, n. 104, non solo in termini numerici e distinti per sesso, ma per composizione familiare e status occupazionale dell’eventuale partner. Questi dati dovrebbero essere resi pubblici e accessibili. Un’analoga richiesta andrebbe fatta al Ministero del lavoro per i dati sull’andamento dei premi di produttività e alla contrattazione di secondo livello relativamente all’ambito della conciliazione famiglia-lavoro.

Sempre sulla questione dei congedi, al fine di avere un quadro complessivo dell’esistente e di  valutare l’eventuale necessità di ulteriori coperture, è anche necessario chiedere all’INPS la disponibilità di dati analitici in relazione al finanziamento e alla spesa, articolati per voce di finanziamento e beneficiari dei congedi: a quanto ammonta il gettito del contributo per la maternità (sia per i lavoratori dipendenti, sia per i parasubordinati e autonomi), quanto è la spesa per i congedi di maternità e per i congedi parentali, e quindi quanto è il contributo della fiscalità generale (se vi è) per ciascuna tipologia di beneficiari.

In relazione alle azioni di innovazione organizzativa, nell’ottica della conciliazione famiglia/lavoro e al fine di rilanciare forme di sostegno, sarebbe molto utile avere inoltre dal Ministero del Lavoro dati relativi alla contrattazione collettiva di II livello che è stata depositata e ha avuto accesso agli stanziamenti ex D.lgs. n.80 del 2015, in relazione alle tipologie di aziende, alle azioni proposte, ai target individuati.

Analogamente, sarà opportuno un monitoraggio, e la messa a disposizione dei dati, dell’esito del bando #conciliamo del Dipartimento per le politiche per le famiglie.

Considerazioni Alleanza per l’Infanzia sulla proposta di legge delega testo unificato AC 687

11 luglio 2020

Considerazioni generali

Cruciali, per la significatività della misura e il fatto che sia davvero percepito come universale, saranno le risposte fornite a quanto ammonterà la componente uguale per tutti, così come sarà modulato l’importo progressivo. Se la componente uguale per tutti risultasse troppo bassa, oltre a diventare uno spreco inutile di denaro, è difficile che l’assegno venga percepito come universale e produca un impatto trasformativo sulle famiglie e sulle loro scelte. Non basta, quindi, che sia uno strumento che migliori l’efficienza rispetto alle attuali misure, ma deve avere anche una riconoscibile e misurabile efficacia.

Occorre che il nuovo strumento non faccia rimpiangere il sostegno fornito da quelli attualmente vigenti, per cui va inserita esplicitamente una specifica clausola transitoria di salvaguardia, che indichi come nessuno degli attuali beneficiari delle varie misure possa trovarsi in una situazione meno vantaggiosa rispetto a quella assicurata dalla legislazione vigente.

IPOTESI EMENDATIVA: Aggiungere all’art. 2 c.1 la lettera i) la previsione già contenuta nel testo originario del Ddl all’art. 2 c.1 lett o): “adozione di strumenti di integrale compensazione qualora il beneficio complessivo risulti inferiore al beneficio complessivo fruito prima della data di entrata in vigore della presente legge”.

Occorre anche mantenere le misure che tutelano i nuclei familiari in cui non è presente un figlio e che ad oggi sono beneficiari dell’assegno al nucleo familiare.

Infine, l’assegno universale, e quindi anche i fondi ad esso allocati, vanno in ogni caso intesi come una parte molto importante, ma parziale, delle misure rivolte a sostenere la crescita e lo sviluppo delle persone di minore età. Un’altra parte, altrettanto importante, è costituita dai servizi educativi, sul cui rafforzamento e ampliamento   è altrettanto necessario intervenire. 

Osservazioni specifiche

Art. 1

Art. 1 lettera b): “l’ammontare dell’assegno di cui al comma 1 è modulato sulla base della condizione economica del nucleo familiare, come individuata attraverso l’indicatore della situazione economica equivalente (ISEE) o sue componenti, tenendo conto dell’età dei figli a carico e dei possibili effetti di disincentivo al lavoro per il secondo percettore di reddito nel nucleo familiare”

Il riferimento all’ISEE “o sue componenti” potrebbe presentare alcune criticità. L’ISEE infatti tende a sopravvalutare il peso del patrimonio, ad esempio la ricchezza immobiliare, che a volte è del tutto illiquidabile. Per la determinazione dell’assegno sarebbe meglio considerare solo il reddito familiare, possibilmente quello corrente, come avviene attualmente per ‘assegno al nucleo familiare. E’ noto, infatti, che l’ISEE, a meno di situazioni particolari, computa i redditi contenuti relativi a due anni prima, che possono avere scarsa corrispondenza con il reddito disponibile al momento dell’erogazione dell’assegno. Nel caso di una coppia di formazione recente, può persino riferirsi ad un periodo in cui i due non erano ancora una famiglia. Il riferimento all’ ISEE potrebbe essere mantenuto come soglia cautelativa al di sotto della quale accedere all’importo maggiorato rispetto a quello base,per evitare di favorire quanti presentano dichiarazioni mendaci.  

IPOTESI EMENDATIVA: “l’ammontare dell’assegno di cui al comma 1 è modulato sulla base della condizione economica del nucleo familiare, come individuata attraverso l’indicatore della situazione economica equivalente (ISEE) o sue componenti o il reddito familiare equivalente, tenendo conto dell’età dei figli a carico e dei possibili effetti di disincentivo al lavoro per il secondo percettore di reddito nel nucleo familiare

Art. 1 comma d):“l’assegno di cui al comma 1 è pienamente compatibile con la fruizione del reddito di cittadinanza, di cui all’articolo 1 del decreto-legge 28 gennaio 2019, n. 4, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 marzo 2019, n. 26, ed è corrisposto congiuntamente ad esso con le modalità di erogazione del reddito di cittadinanza. Nella determinazione dell’ammontare complessivo si tiene eventualmente conto della quota del beneficio economico del reddito di cittadinanza attribuibile ai componenti di minore età presenti nel nucleo familiare, sulla base di parametri della scala di equivalenza di cui all’articolo 2, comma 4, del decreto-legge n. 4 del 2019”

Ottimo e dovuto/equo che anche i beneficiari di reddito di cittadinanza possano ricevere l’assegno. Non si capisce tuttavia la specificazione: “Nella determinazione dell’ammontare complessivo si tiene eventualmente conto della quota del beneficio economico del reddito di cittadinanza attribuibile ai componenti di minore età presenti nel nucleo familiare, sulla base di parametri della scala di equivalenza di cui all’articolo 2, comma 4, del decreto-legge n. 4 del 2019;” A parte che al momento attuale la scala di equivalenza RdC è sfavorevole ai figli minori, non si vede perché, mentre per le  altre famiglie l’assegno si aggiunge al reddito familiare complessivo, nel caso dei più poveri, e per questo beneficiari di RdC (che sostituisce reddito assente per soddisfare bisogni essenziali e non ha obiettivi di sostegno alla genitorialità), invece l’assegno dovrebbe venire decurtato in base alla  quota parte per i figli in esso. Appare un atteggiamento punitivo e creatore di iniquità. Si tratta di una previsione che mal si concilia con il riconoscimento di un sostegno specifico ai minori di carattere universale e che non trova analoga corrispondenza in quanto previsto nel caso siano presenti figli con disabilità, generando, quindi, una penalizzazione mirata per i beneficiari di assegno unico in condizione di povertà.

IPOTESI EMENDATIVA: Abrogare il secondo periodo della lettera d) articolo 1, da “Nella determinazione…” a “del 2019”.

Art 1 lettera g): “l’assegno di cui al comma 1 è concesso nella forma di credito d’imposta ovvero di erogazione mensile di una somma in denaro”

Sarebbe consigliabile lasciare ai genitori la scelta se ricevere l’assegno come credito di imposta (in caso di capienza totale) o di assegno mensile. Tra l’altro, può succedere che un genitore sia fiscalmente capiente e l’altro no. Inoltre, che cosa succede nel caso uno solo dei genitori sia titolare di reddito? 

IPOTESI EMENDATIVA: “l’assegno di cui al comma 1 è concesso nella forma di credito d’imposta ovvero di erogazione mensile di una somma in denaro. I genitori hanno la facoltà di indicare esplicitamente per quale delle due soluzioni optano”

Art 1 lettera h): “è istituito un organismo aperto alla partecipazione delle associazioni di tutela della famiglia maggiormente rappresentative, al fine di monitorare l’attuazione e verificare l’impatto dell’assegno di cui al comma 1”

Sarebbe auspicabile evitare un ennesimo organismo di monitoraggio e valutazione della misura, in luogo di rimandare tale importante attività ai già costituiti Osservatorio Nazionale per l’Infanzia e l’Adolescenza e Osservatorio Nazionale per la Famiglia. 

IPOTESI EMENDATIVA: Modificare lettera h) art. 1: “È attribuito all’Osservatorio nazionale per l’Infanzia e l’Adolescenza e all’Osservatorio Nazionale per la Famiglia, in sede congiunta, il monitoraggio dell’attuazione e la verifica dell’impatto dell’assegno di cui al comma 1”. 

Art. 2

Art. 2 lettera b): “riconoscimento di un assegno mensile, di importo inferiore a quello riconosciuto per i minorenni, per ciascun figlio maggiorenne a carico, fino al compimento del ventunesimo anno di età, con possibilità di corresponsione dell’importo direttamente al figlio, su sua richiesta, al fine di favorirne l’autonomia. L’assegno è concesso solo nel caso in cui il figlio maggiorenne frequenti un percorso di formazione scolastica o professionale, un corso di laurea, svolga un tirocinio ovvero un’attività lavorativa limitata con reddito complessivo inferiore a un determinato importo annuale, sia registrato come disoccupato e in cerca di lavoro presso un centro per l’impiego o un’agenzia per il lavoro o svolga il servizio civile universale”.

La previsione sul sostegno ai figli maggiorenni (fino al compimento del 21 anno di età) occupati, ma con redditi bassi, o disoccupati o inseriti in percorsi di politiche attive rischia di creare uno strumento ibrido poco efficace nell’obiettivo di dare risposte adeguate a problematiche differenti e complesse. 

Più opportuno sarebbe limitare con precisione il riconoscimento dell’assegno unico universale ai figli fino ad una età determinata ed un determinato reddito, fiscalmente a carico dei genitori fino al compimento del ventunesimo anno di età, invitando i ministeri competenti arafforzare le politiche per il diritto allo studio, la formazione continua e l’attivazione lavorativa.

Art. 2 lettera e): “Con riferimento ai requisiti di accesso, cittadinanza, residenza e soggiorno, il richiedente l’assegno deve cumulativamente: 1) essere cittadino italiano o di uno Stato membro dell’Unione europea, o suo familiare, titolare del diritto di soggiorno o del diritto di soggiorno permanente, ovvero essere cittadino di uno Stato non appartenente all’Unione europea in possesso del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo o del permesso di soggiorno per motivi di lavoro o di ricerca di durata almeno annuale; 2) essere soggetto al pagamento dell’imposta sul reddito in Italia; 3) vivere con i figli a carico in Italia; 4) essere stato o essere residente in Italia per almeno due anni, anche non continuativi, ovvero essere titolare di un contratto di lavoro a tempo indeterminato o a tempo determinato di durata almeno biennale

Il requisito 2 (“essere soggetto al pagamento dell’imposta sul reddito in Italia”) include anche gli incapienti, ovvero coloro che non hanno redditi da dichiarare o redditi così bassi da non essere tassabili? 

Il requisito 4 (“essere stato o essere residente in Italia per almeno due anni, anche non continuativi, ovvero essere titolare di un contratto di lavoro a tempo indeterminato o a tempo determinato di durata almeno biennale”) non è in contrasto con il requisito 1 che parla di possesso “del permesso di soggiorno per motivi di lavoro o di ricerca durata almeno annuale”?

Si consiglia di riformulare meglio il testo per evitare fraintendimenti o discrepanze. In ogni caso il requisito di una residenza almeno biennale appare eccessivo.

Art. 3

Art 3 comma 1 lettera b: “dalla soppressione, nel quadro di una più ampia riforma del sistema fiscale, delle seguenti misure: 1) detrazioni fiscali previste dall’articolo 12, commi 1, lettera c), e 1-bis, del testo unico delle imposte sui redditi, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917; 2) assegno per il nucleo familiare, previsto dall’articolo 2 del decreto-legge 13 marzo 1988, n. 69, convertito, con modificazioni, dalla legge 13 maggio 1988, n. 153, nonché assegni familiari previsti dal testo unico delle norme concernenti gli assegni familiari, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 1955, n. 797.” 

Art 3, comma 2: “All’attuazione delle deleghe di cui agli articoli 1 e 2 si provvede nei limiti delle risorse di cui al comma 1 del presente articolo. Qualora uno o più decreti legislativi determinino nuovi o maggiori oneri che non trovino compensazione al proprio interno o mediante l’utilizzo delle risorse di cui al comma 1, essi sono adottati solo successivamente o contestualmente all’entrata in vigore dei provvedimenti legislativi che stanzino le occorrenti risorse finanziarie, in conformità all’articolo 17, comma 2, della legge 31 dicembre 2009, n. 196”

Siamo consci che nel caso in cui venga messa in campo una riforma fiscale -in particolare dell’Irpef- il nuovo strumento non possa prescinderne, sia per le risorse economiche che la riforma potrebbe liberare e che potrebbero essere destinate per il sostegno ai figli, sia per determinare una quantificazione complessivamente più accurata dei benefici per le famiglie destinatarie. Riteniamo tuttavia che l’introduzione dell’assegno unico universale andrebbe attuata anche in assenza di una completa riforma fiscale. 

Da questo punto di vista, sarebbe più opportuno stabilire da subito che occorre un provvedimento legislativo che stanzi risorse aggiuntive a quelle reperibili con l’assorbimento delle misure esistenti ed a quelle attualmente disponibili nel Fondo assegno universale e servizi alla famiglia, effettivamente in grado di creare uno strumento di welfare pienamente universale, e, quindi, ottenibile anche dai lavoratori incapienti o autonomi, riconoscendo la necessità di sostenere i bambini e adolescenti in quanto tali nei loro bisogni di crescita e sviluppo, senza subire penalizzazioni dettate dalla condizione occupazionali dei genitori. Altrimenti questo dlgs nasce morto, perché l’assorbimento non basterà a finanziare un assegno universale. Si può dire che si impegna il governo a stanziare le risorse aggiuntive necessarie una volta definito l’importo base e i criteri per il suo aumento in base al reddito e ad altre dimensioni.

Per quanto concerne il finanziamento, il tema più rilevante è posto dalla natura delle risorse che lo andrebbero a comporre, ovvero, parte a carico della fiscalità generale e parte a carico di contribuzione che al memento grava solo sul lavoro dipendente. Bisognerà quindi prevedere degli interventi volti ad armonizzare queste fonti di finanziamento.

Parere sulle norme contenute nel Disegno di legge di bilancio 2020 (versione del 31-10-2019) in merito alle disposizioni in favore della famiglia (Art. 42) e sulla proposta di legge Delrio, Lepri ed altri (C. 687): “Delega al Governo per riordinare e potenziare le misure a sostegno dei figli a carico attraverso l’assegno unico e la dote unica per i servizi”

Premessa

L’obiettivo sia dell’art. 42 del Disegno di legge di bilancio 2020 che della proposta di legge Delrio ed altri (C. 687), di rafforzare e di razionalizzare il frammentato sistema di interventi legati alla presenza di figli per migliorarne l’efficacia e l’equità, anche al fine di un sostegno alle scelte di fecondità, è totalmente condivisibile.

In particolare, per quanto riguarda la proposta di legge C. 687, è condivisibile il principio di fondo di articolare gli interventi tramite due strumenti: l’assegno unico (quale misura di sostegno economico per i figli a carico) e la dote unica per i servizi (quale misura volta a favorire la fruizione di servizi a sostegno della genitorialità).

Con il primo si aiutano le famiglie, tutte, non solo quelle appartenenti a determinate categorie, a fronteggiare il costo dei figli, riducendo il rischio che la scelta di avere un figlio (in più) produca forti squilibri nel bilancio famigliare o addirittura causi la caduta in povertà. È opportuno ricordare a questo proposito che l’Italia è uno dei paesi dell’Unione Europea con più forte incidenza della povertà minorile e dove sono particolarmente a rischio di povertà le famiglie con più figli.

Con il secondo, il voucher servizi, si aiutano i genitori nei propri compiti di cura ed educativi, sia favorendo la conciliazione tra lavoro e famiglia, sia offrendo possibilità di confronto e consulenza, sia allargando i contesti e le relazioni educative per i bambini.

Ugualmente apprezzabile è lo sforzo fatto nel Disegno di legge di bilancio 2020 (versione del 31-10-2019), che riprende una serie di obiettivi della proposta di Legge suddetta e li integra.

In particolare, per quanto riguarda le risorse economiche dedicate alle politiche di sostegno della famiglia, il comma 1 dell’Art. 42 prevede di istituire un fondo denominato «Fondo assegno universale e servizi alla famiglia», con una dotazione pari a 1.044 milioni di euro per l’anno 2021 e a 1.244 milioni di euro annui a decorrere dal 2022.

In merito al congedo obbligatorio per il padre lavoratore dipendente, il comma 4 dell’Art. 42 del Disegno di legge di bilancio 2020 prevede sia la proroga anche al 2020 dell’articolo 1, comma 354, della legge 11 dicembre 2016, n. 232, sia un aumento a sette giorni sempre per l’anno 2020 di tale congedo, oltre alla possibilità anche per il 2020 che il padre lavoratore dipendente fruisca di un periodo ulteriore di un giorno, previo accordo con la madre e in sua sostituzione in relazione al periodo di astensione obbligatoria spettante a quest’ultima. Complessivamente, il dispositivo cerca di rafforzare lo strumento del congedo obbligatorio per il padre lavoratore dipendente.

Per quanto riguarda le misure di sostegno economico per i figli a carico (il primo dei due strumenti indicati nella proposta di legge C. 687), l’Art. 42 del Disegno di legge di bilancio 2020 si ricollega a quanto introdotto con l’articolo 1, comma 125, della legge 23 dicembre 2014, n. 190, che prevede un assegno di importo pari a 960 euro annui erogato mensilmente a decorrere dal mese di nascita o adozione fino al compimento del terzo anno di età e condizionato alla situazione economica familiare. In particolare il comma 2 dell’Art. 42 prevede un sensibile innalzamento dell’importo di tale assegno fino al compimento del primo anno di età, sempre modulandolo rispetto alla condizione economica familiare, con una cifra massima pari a 1.920 euro. La copertura finanziaria di tale onere aggiuntivo dell’assegno nel primo anno di vita del bambino (pari a 348 milioni di euro per l’anno 2020 e a 410 milioni di euro per l’anno 2021) è assicurata da parte delle risorse previste nel «Fondo assegno unico universale e servizi alla famiglia» di cui sopra (comma 3 dell’Art. 42 del Disegno di legge di bilancio 2020 prevede).

Infine, per quanto riguarda le misure volte a favorire la fruizione di servizi a sostegno della genitorialità, il comma 5 dell’Art. 42 del Disegno di legge di bilancio 2020 prevede integrazioni all’articolo 1, comma 355, della legge 11 dicembre 2016, n. 232. L’articolo della legge del 2016 prevedeva forme di sostegno economico (un buono di 1.000 euro su base annua) per il pagamento di rette relative alla frequenza di asili nido pubblici e privati, stabilendo inoltre un limite massimo complessivo di spesa, pari a 300 milioni di euro per l’anno 2019. La nuova normativa proposta nel comma 5 dell’Art. 42 del Disegno di legge di bilancio 2020, prevede a decorrere dall’anno 2020, che tale buono venga incrementato fino a 1.500 euro a seconda della situazione economica del nucleo familiare. Inoltre, il limite massimo complessivo di spesa passa dai 300 milioni di euro previsti per l’anno 2019 ai 520 milioni di euro per l’anno 2020 e 530 milioni di euro per l’anno 2021, per poi proseguire con incrementi annui fino alla cifra di 621 milioni di euro annui a decorrere dall’anno 2029. Anche in questo caso, la copertura finanziaria di tali oneri aggiuntivi è assicurata tramite le risorse previste nel «Fondo assegno unico universale e servizi alla famiglia» di cui sopra (comma 3 dell’Art. 42 del Disegno di legge di bilancio 2020 prevede).

Criticità ed aspetti da migliorare

L’Alleanza apprezza lo sforzo del Governo e del Parlamento e condivide i punti di fondo dei due provvedimenti. Allo stesso tempo ritiene che vi siano alcune criticità che meritano attenzione pe migliorare l’efficacia dei provvedimenti stessi nel sostenere le famiglie con figli.
Le osservazioni che seguono vanno quindi collocate all’interno di questa condivisione di principio e riguardano i seguenti aspetti.

Sostegno economico e servizi

  1. alcuni aspetti del funzionamento dell’assegno universale;
  2. il tipo di servizi per cui può essere utilizzata la dote;
  3. la necessità di integrare gli strumenti dell’assegno unico e della dote con un sostanzioso investimento in servizi socio-educativi;
  4. le età dei figli considerate ai fini della erogazione rispettivamente dell’assegno e della dote;

Congedi

  1. la mancata messa a fuoco della situazione delle lavoratrici autonome o con contratti a tempo determinato;
  2. la durata del congedo obbligatorio per i padri;
  3. l’ampliamento del congedo parentale per i genitori.

In dettaglio, le osservazioni dell’Alleanza sono le seguenti.

Il funzionamento dell’assegno universale

L’Alleanza non entra nel dibattito se sia più opportuno avere misure uguali per tutti, a prescindere dal reddito o se, all’interno di una logica universalistica e non categoriale, sia più opportuno graduare il valore della misura (sia nel caso dell’assegno sia in quello della dote) in base al reddito della famiglia. Ci sono buone ragioni per sostenere sia l’una sia l’altra posizione, anche dal punto di vista dell’universalismo e dell’equità. Accettando la scelta dei proponenti delle due proposte di legge di graduare le misure in base al reddito famigliare, in modo da renderle più corpose per i redditi più bassi accentuandone l’efficacia redistributiva, le osservazioni riguardano i seguenti aspetti.

Mentre la proposta di legge Delrio ed altri prefigura un modello effettivamente universale, rivolto a tutti i figli minorenni, l’articolo 42 del disegno della Legge di Bilancio adotta in modo parziale tale impostazione, limitando l’assegno solo per i nuovi nati nel 2020 e differenziandone l’importo in tre fasce. Non è chiaro come il legislatore intenda far evolvere l’assegno unico portandolo a regime (evitando diventi l’ennesima azione estemporanea), facendolo diventare davvero universale (rivolto a tutti i bambini), dandogli continuità nel tempo (fino al raggiungimento della maggiore età) ed equo rispetto alla situazione delle famiglie. Coerentemente con ciò sarebbe, in primo luogo, importante dare rassicurazione alle famiglie che tali importanti risorse saranno il frutto del riordino delle misure parziali esistenti a sostegno delle famiglie, ma non proverranno da tagli al sostegno dei redditi (es. cuneo fiscale) e che si tratta di una misura strutturale e stabile, che prevede innanzitutto che i nuovi nati del 2020 potranno contare su un trasferimento quantomeno fino ai 18 anni. Inoltre, andrebbero meglio specificati tempi e modi di estensione anche a tutti gli altri minori già nati prima del 2020, quindi della più ampia riforma dei trasferimenti legati alla presenza di figli.

Infine, se si ritiene necessario utilizzare un criterio di reddito per graduare il beneficio, occorre fare attenzione a che questo non si presti a nuove iniquità.

Servizi per cui può essere utilizzata la dote

L’articolo 42 del Disegno di legge di bilancio 2020 individua forme di supporto economico pagamento di rette relative alla sola frequenza di asili nido pubblici e privati. Questa impostazione ci sembra più corretta di quella che si trova nell’art. 3, comma 1, lettera a della proposta di legge Delrio ed altri, ove si dice: “a) istituzione di una dote unica per un ammontare fino a un massimo di 400 euro per dodici mensilità, per ogni figlio fino ai tre anni di età, utilizzabile per il pagamento di servizi per l’infanzia quali asili nido, micronidi, baby parking e personale direttamente incaricato”.

A nostro parere, infatti, questa formulazione presenta alcune criticità.

In primo luogo, ed è la questione più importante, il ventaglio di “servizi” per cui può essere spesa la dote è troppo ampio e generico. Se l’obiettivo della dote è il sostegno alla genitorialità e l’ampliamento delle possibilità educative dei bambini, sembra ragionevole indirizzare meglio l’utilizzo di questo strumento. Baby parking e baby-sitter, pur con eccezioni, difficilmente garantiscono sia possibilità di confronto e consulenza ai genitori sui propri compiti e problemi, sia opportunità socio-educative ai bambini. E’ una questione cruciale alla luce dell’importanza che ormai tutti gli esperti – dai pediatri agli psicologi dell’età evolutiva – riconoscono ai primi tre anni di vita per lo sviluppo futuro dei bambini, sottolineando il ruolo cruciale che in questa prospettiva hanno sia il rapporto con i genitori, sia la frequenza di servizi per l’infanzia di qualità. In questi decenni l’Italia ha raggiunto un livello buono, se non ottimo, di qualità nei propri servizi per l’infanzia grazie al “welfare mix”, costruito attorno alla professionalità, all’attivismo e al rapporto virtuoso fra amministrazioni locali ed organizzazioni di terzo settore e fondato su criteri condivisi di definizione della qualità dei servizi stessi.

È fondamentale che lo strumento della dote si innesti in questo solco e sostenga l’ampliamento di questo modello di servizi per l’infanzia. Occorre evitare il rischio che la dote, invece che sostenere il modello di servizi di qualità che si è diffuso in Italia in questi decenni, incentivi le famiglie a scelte in cui la necessità custodialistica dei propri figli prevalga su quella della crescita socio-educativa di qualità del bambino, con un ricorso più massiccio che in passato a strumenti quali il baby parking e il baby-sitting. Sarebbe paradossale se uno strumento pensato per sostenere la genitorialità tramite servizi finisca per spostare il baricentro da un sistema di servizi socio-educativi di qualità, quale quello attuale, ad un sistema in cui gli interventi custodialistici, magari offerti da singole persone o da organizzazioni senza personale professionale, prendano il sopravvento.

In questa ottica appare necessario che la dote venga spesa solo all’interno dell’alveo dei servizi socio-educativi per l’infanzia, pubblici e privati, che fin qui sono stati certificati per la loro qualità, accreditati a livello locale ma sulla base di criteri condivisi a livello nazionale (cfr. art. 2 del decreto 65 sul sistema integrato di istruzione e educazione 0-6 anni).

In secondo luogo, e questa osservazione vale anche per l’art. 42 della Legge di bilancio, andrebbe esplicitato maggiormente che l’accesso alla dote è indipendente dallo status occupazionale dei genitori, in particolare della madre. La dote è, infatti, importante anche per le famiglie in cui uno dei due genitori o entrambi non lavorano, sia perché consente di ampliare le risorse educative per i bambini, sia perché è uno strumento utile per mettere le famiglie nella condizione di cercare una occupazione e conciliare lavoro e cura una volta trovato. In altri termini, oltre che per fini di sviluppo socio-educativo del bambino, la dote deve avere l’obiettivo di aiutare i genitori a conciliare, intervenendo non solo in favore di quelli che già lavorano ma anche di quelli che vorrebbero lavorare ma hanno difficoltà a farlo, anche per motivi legati ai compiti di cura dell’infanzia.

È utile ricordare, a questo proposito, che la Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, di cui il prossimo 20 novembre ricorrerà il trentennale dall’approvazione da parte dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, prevede – tra le altre cose – che “gli Stati parte si impegnino ad adottare tutti i provvedimenti legislativi, amministrativi e altri, necessari per attuare i diritti riconosciuti dalla presente Convenzione” (Articolo 4). L’Italia ha ratificato la Convenzione con legge n.176 del 1991 impegnandosi nel rispetto dei diritti previsti e nella verifica periodica degli stessi. Le ultime Osservazioni Conclusive, rivolte nel febbraio del 2019 dal Comitato ONU sui diritti dell’infanzia al nostro Paese, mettono in particolare rilievo l’importanza dell’allocazione delle risorse per politiche e programmi a sostegno dell’infanzia e dell’adolescenza e per ridurre la povertà minorile (par.8 e par.30).

Infine, la scelta di puntare su servizi di qualità pone problemi in un paese quale l’Italia in cui non in tutti i territori sono presenti sufficienti strutture. La dotazione del bonus asili nido (540 milioni) rischia di coprire una platea pari a quella che già usufruisce del servizio (tra pubblico e privato) e di fatto non amplia l’offerta di posti. Dato questo ordine di problemi, occorre innanzitutto prevedere come possano fare parte di questa rete anche i micronidi, i nidi aziendali, o le tagesmutter e figure simili presenti in alcune zone ove è difficile organizzare un nido, purché siano, appunto, certificate e supervisionate per la loro qualità educativa, e non operino come puri servizi custodialistici. Allo stesso tempo, è necessaria una azione molto più strutturale e di ampio respiro per iniziare ad ovviare a tale problema. A tal fine, l’Alleanza suggerisce anche una politica di sostegno pubblico all’espansione dell’offerta dei servizi (si veda il punto sotto). Si suggerisce altresì di vigilare affinché si superino gli ostacoli burocratici all’utilizzazione dei fondi già assegnati per la creazione di Poli per l’infanzia 0-6, e si dia seguito all’ implementazione della strategia educativa sottesa alla creazione del sistema educativo integrato 0 – 6 anni, secondo quanto previsto nella Legge de La Buona scuola.

Necessità di integrare l’assegno unico e la dote servizi con l’investimento in servizi

Alla luce delle osservazioni sopra formulate, proprio se si vuole investire in servizi di qualità tramite la dote, occorre anche prevedere all’interno della proposta di legge Delrio ed altri un investimento finanziario pubblico consistente per sostenere l’espansione dell’offerta di questi servizi.

L’obiettivo di sostenere la genitorialità e le opportunità educative dei bambini, infatti, non può essere affrontato solo dal lato della domanda (tramite la dote data alle famiglie e l’assegno universale). Richiede anche un sostegno pubblico più robusto dal lato dell’espansione dell’offerta. I dati più recenti provenienti da varie fonti (da Istat a Save the Children) segnalano che in Italia solo poco più di un bambino su dieci ha posto in un nido pubblico o convenzionato, con picchi negativi in alcune regioni, per lo più nel Mezzogiorno, dove solo il 2-3% dei bambini dagli zero ai tre anni ha accesso a un nido pubblico. La situazione è solo in parte compensata da strutture private (incluse quelle aziendali), stante che, secondo i dati di Openpolis, il livello di copertura complessivo in Italia è del 20%, che sale al 24% se si considerano anche le sezioni primavera nelle scuole per l’infanzia. La stragrande maggioranza dei bambini (e dei loro genitori) quindi, è esclusa da questo servizio, con effetti negativi non solo sulla opportunità dei genitori di rimanere nel mercato del lavoro, ma sulle pari opportunità di crescita socio-educativa tra bambini. A ciò si aggiungano le enormi disparità regionali. Le regioni del Nord offrono un posto al nido ad un bambino ogni quattro, molte regioni del Sud non riescono ad offrirlo neppure ad un bambino ogni dieci.

Occorre, quindi, indicare nella proposta di legge di Delrio ed altri, e se possibile esplicitare meglio questo aspetto anche nel Disegno di legge di bilancio 2020, la volontà di un sostegno economico all’ampliamento dell’offerta di servizi di qualità per la prima infanzia, prevedendo interventi finanziari per l’ampliamento sia dell’offerta diretta di servizi pubblici che di quelli offerti dal terzo settore, in collaborazione con le amministrazioni locali.

Si propone di includere nei servizi sopra indicati sui quali investire anche quelli relativi alla ristorazione e al trasporto scolastici, sia per la scuola dell’infanzia che per la scuola primaria. Infatti i bambini esclusi da questo servizio sono ancora oggi molti (49% nella primaria) e dislocati soprattutto nelle regioni del Sud.

Per quali età?

La questione si pone, ovviamente, diversamente nel caso dell’assegno unico e della dote servizi.

Per quanto riguarda l’assegno unico, si può valutare se limitarlo solo ai figli minorenni, eventualmente rendendolo più corposo, o ai maggiorenni fino a 24 anni, purché siano ancora in formazione. Nel caso dei figli disabili, occorrerebbe specificare “senza limiti di età”.

Si può anche osservare che la lettera d) comma 1 art. 2 della proposta Delrio et al.- “mantenimento degli importi in vigore per coniuge e altri famigliari a carico” – non è chiaro a quali importi si riferisca, al di fuori delle detrazioni fiscali, coscienti del fatto che queste ultime presentano il consueto svantaggio per gli incapienti, che non possono fruire di alcuna detrazione.

Per quanto riguarda la dote servizi, la sua estensione sino al compimento del quattordicesimo anno di età rischia di suggerire implicitamente l’idea che si tratti di una misura “custodialistica”, visto che dai tre anni in su i bambini sono a scuola. Se l’obiettivo è sostenere la conciliazione lavoro-famiglia anche dopo l’entrata dei figli nel sistema scolastico, meglio allora forse rafforzare il tempo pieno nelle scuole, che avrebbe il duplice effetto aggiuntivo di rafforzare le opportunità educative per i bambini e di creare posti di lavoro di qualità nel sistema dell’istruzione. In alternativa, si potrebbe vincolarne l’uso alla partecipazione ad attività sportive, o di apprendimento della musica, o teatro, cioè ad attività extracurriculari la cui importanza per lo sviluppo dei bambini è stata individuata come molto importante e da cui spesso sono esclusi i bambini dei ceti economicamente più modesti. Ma, anche qui, potrebbe esserci un problema di offerta (e di accreditamento). Altrimenti, meglio concentrare le risorse sui bambini sotto i tre anni.

Mancata messa a fuoco della situazione delle lavoratrici autonome o con contratti a tempo determinato

Teoricamente tutte le lavoratrici hanno diritto, in caso di maternità a un’indennità economica in sostituzione della retribuzione. Essa è regolata principalmente con il “Testo Unico per la tutela e il sostegno della maternità e della paternità” emanato dal d.lgs. n.151/2001, successivamente modificato per includere le nuove tipologie di lavoratrici.

In linea generale, se il rapporto di lavoro è alle dipendenze si ha diritto all’indennità se si è occupate (o coperte da ammortizzatori sociali per la disoccupazione) all’inizio del congedo. Se invece si è lavoratrici autonome, il diritto all’indennità è subordinato a un pregresso contributivo, che può essere definito in giornate (lavoro agricolo e lavoro dello spettacolo) o in ammontare di contributi versati.
Sono rimaste differenze significative, sia nella capacità di supplire appieno alla mancanza di reddito connessa alla gravidanza, sia nel sistema di informazioni e nella prontezza degli interventi.
Per chi non è una lavoratrice dipendente, ottenere l’indennità non è mai qualcosa di automatico. È mancata un’integrazione organica delle aggiunte successive, con diverse conseguenze che si stanno facendo sentire sempre di più in un mercato del lavoro fluido e frammentato, in cui spesso è necessario svolgere più lavori (più lavori autonomi o anche lavori che sono sia dipendenti sia autonomi).
Le gestioni restano infatti rigidamente distinte: quanto versato in una gestione non serve nel momento in cui si passa a un’altra gestione, né può essere cumulato se si è in parallelo su due gestioni. Chi ha un lavoro instabile è esclusa dalla indennità, o ne ha una irrisoria. I problemi non riguardano, infatti, solo le non dipendenti, ma anche le lavoratrici dipendenti con contratti a termine, che sono tutelate solo se hanno un contratto attivo all’inizio del congedo. Per aver diritto all’indennità è necessaria una vera e propria programmazione della gravidanza, per cogliere l’opportunità di un periodo tutelato.

Va considerato che solo circa il 30% delle donne sotto i 30 anni e circa il 45% di quelle sotto i 40 anni hanno un rapporto di lavoro dipendente stabile. Quindi la maggioranza delle donne in età feconda gode di scarsa o nulla tutela se decide di avere un figlio.

Occorre quindi metter mano ad una revisione del sistema di tutela della maternità che preveda, accanto alla la predisposizione di un’informazione efficiente e pervasiva e alla semplificazione delle procedure: 1) l’ampliamento della copertura dell’indennità di maternità, con l’istituzione di una indennità di maternità minima (5 mesi con una indennità pari a 1,5 volte assegno sociale) per tutte le mamme o almeno per tutte le mamme lavoratrici; 2) la cumulabilità dei versamenti e quindi delle indennità maturate su più casse previdenziali; 3) l’estensione a tutte le tipologie di lavoratori/lavoratrici del congedo di 10/11 mesi, da suddividere tra i due genitori.

Durata del congedo obbligatorio di paternità

Aver previsto in legge un allungamento del periodo di congedo di paternità fino a 7 giorni è un importante passo avanti. Sarebbe fondamentale, però, prevedere in prospettiva, da un lato, la sua estensione anche ai padri lavoratori autonomi, dall’altro, un allungamento della misura a 10 giorni, come indicato nella Direttiva europea sulla conciliazione vita-lavoro. Il tema della conciliazione non è risolvibile solo dal lato dei trasferimenti e dell’offerta dei servizi. Richiede una migliore redistribuzione dei compiti di cura all’interno della coppia. Un congedo più lungo per i padri rappresenta un sostegno in tal senso.

Ampliamento del congedo parentale per i genitori

Andrebbe in prospettiva potenziato, ampliato e meglio retribuito il congedo parentale, che rappresenta uno strumento di conciliazione particolarmente importante per sostenere i genitori nel dedicare tempo di cura ai propri figli (neonati ma anche adolescenti), tutelare i livelli occupazionali femminili in occasione di una maternità e promuovere culturalmente e realmente le pari opportunità.

Allo stesso tempo, sarebbe importante tornare a prevedere un sistema di incentivi per la contrattazione collettiva, che innovi nel campo di permessi e congedi a motivo della genitorialità, in copertura retributiva o durata, anche sulla base delle esperienze maturate in questi anni.



Parere pubblicato su welforum.it il 18 novembre 2019:
L’Alleanza per l’Infanzia sulle proposte di legge a sostegno delle famiglie

Bibliografia

Segnaliamo anche i seguenti articoli usciti su welforum.it sullo stessa tema:

Stefano Lepri, Assegno unico e universale per i figli a carico. Idee guida e simulazioni del disegno di legge in discussione al Senato, 19 ottobre 2017.

Chiara Saraceno, In merito alle misure proposte a sostegno dei figli a carico. Parere sulla proposta di legge Del Rio, Lepri ed altri, 10 ottobre 2019.


Parere sulla proposta di legge Del Rio, Lepri e altri: “Delega al Governo per riordinare e potenziare le misure a sostegno dei figli a carico attraverso l’assegno unico e la dote unica per i servizi”

di Chiara Saraceno

Premessa
L’obiettivo della proposta di legge, razionalizzare il frammentato sistema di trasferimenti legati alla presenza di figli per migliorarne l’efficacia e l’equità, anche al fine di un sostegno alle scelte di fecondità, è totalmente condivisibile. Le criticità e inefficienze della attuale situazione, sinteticamente riassunte nella nota di presentazione alla proposta di legge, sono state oggetto da tempo di analisi da parte di studiosi e di associazioni della società civile e vi è un consenso diffuso e trasversale sulla necessità di riforma.  Analogamente condivisibili sono in linea di principio i due strumenti individuati a questo scopo, l’assegno unico e la dote per l’utilizzo di servizi. Con il primo si aiutano le famiglie, tutte, non solo quelle appartenenti a determinate categorie, a fronteggiare il costo dei figli, riducendo il rischio che la scelta di avere un figlio (in più) produca forti squilibri nel bilancio famigliare o addirittura causi la caduta in povertà. È opportuno ricordare a questo proposito che l’Italia è uno dei paesi dell’Unione Europea con più forte incidenza della povertà minorile e dove sono particolarmente a rischio di povertà le famiglie con più figli. Con il secondo, il voucher servizi, si aiutano i genitori nei propri compiti di cura ed educativi, sia favorendo la conciliazione tra lavoro e famiglia, sia offrendo possibilità di confronto e consulenza, sia allargando i contesti e le relazioni educative per i bambini.
Le osservazioni e gli appunti critici che seguono vanno quindi collocati all’interno di questa condivisione di principio. Riguardano essenzialmente tre aspetti: a) i criteri di individuazione del reddito in base al quale modulare vuoi l’assegno, vuoi la dote, b) il range di servizi per cui può essere utilizzata la dote, c) la necessità di integrare questi due strumenti – assegno unico e dote – con un sostanzioso investimento in servizi educativi. Altre osservazioni riguardano le età dei figli considerate ai fini della erogazione rispettivamente dell’assegno e della dote.

Criteri di individuazione del reddito
Non entro qui nel dibattito se sia più opportuno avere misure uguali per tutti, a prescindere dal reddito o se, all’interno di una logica universalistica e non categoriale, sia più opportuno graduare il valore della misura (assegno e dote) in base al reddito della famiglia. Ci sono buone ragioni per sostenere sia l’una sia l’altra posizione, anche dal punto di vista dell’universalismo e dell’equità. Accettando la scelta dei proponenti di graduare le due misure in base al reddito famigliare, in modo da renderle più corpose per i redditi più bassi accentuandone l’efficacia redistributiva, le mie osservazioni riguardano i criteri. Nello specifico:

  1. Non è chiaro perché si adottano due criteri diversi per le due misure: il reddito per l’assegno unico, l’ISEE per la dote. L’introduzione dell’ISEE per tutte le misure legate ad un test dei mezzi è stato un processo lungo e faticoso e non ancora compiuto. Non mi sembra il caso che in una stessa legge che si propone di razionalizzare l’esistente per arrivare a due sole misure che hanno a che fare con la stessa platea e con bisogni complementari si introduca di muovo una differenziazione nei criteri/strumenti di individuazione delle risorse disponibili.
  2. Ancora meno chiara, e francamente peculiare, è la scelta, nel caso dell’assegno unico, non solo di considerare solo il reddito e non l’ISEE, ma di considerare soltanto il reddito individuale più alto presente in famiglia. Ciò è in palese contrasto con ogni principio di equità. Una famiglia con un unico reddito, ad esempio, sarebbe penalizzata rispetto ad una famiglia con due redditi, entrambi inferiori all’unico reddito della prima, ma con una somma totale più alta. Inoltre, non c’è alcun riferimento all’ampiezza della famiglia, come se non facesse differenza il numero di persone che di quel reddito devono vivere.

Alla luce di queste considerazioni, mi sembrerebbe più opportuno fare riferimento all’ISEE per entrambe le misure o, in subordine, nel caso si ritenga per qualche ragione più opportuno considerare il solo reddito per l’erogazione dell’assegno, la parte reddituale dell’ISEE, che considera sia tutti i redditi, sia l’ampiezza della famiglia, con due avvertenze. La prima è che è opportuno considerare l’ISEE (o la sua parte reddituale) corrente e non quello basato su dati – di reddito e ricchezza – relativi ai due anni precedenti, che è uno degli aspetti critici  dell’ISEE più volte segnalato. La seconda è che nel definire la gradualità della diminuzione del beneficio al salire dell’ISEE, si eviti sia di creare scalini troppo ripidi (con aliquote implicite molto alte) sia di erogare agli scaglioni più alti cifre così irrisorie da non essere in alcun modo significative. Sono questioni da tenere presenti quando si tratterà di scrivere i decreti delegati.

Servizi per cui può essere usata la dote
All’art. 3, comma 1 , lettera a si dice “a) istituzione di una dote unica per un ammontare fino a un massimo di 400 euro per dodici mensilità, per ogni figlio fino ai tre anni di età, utilizzabile per il pagamento di servizi per l’infanzia quali asili nido, micronidi, baby parking e personale direttamente incaricato”.
A mio parere questa formulazione presenta due problemi.

  1. In primo luogo, ed è la questione più importante, il ventaglio di “servizi” per cui può essere spesa la dote è troppo ampio e generico, senza alcuna indicazione di criteri di qualità. Se l’obiettivo è il sostegno alla genitorialità e l’ampliamento delle possibilità educative dei bambini, sembra ragionevole indirizzare l’utilizzo di questa dote a questo scopo. Baby parking e babysitter, pur con eccezioni, difficilmente garantiscono sia possibilità di confronto e consulenza ai genitori sui propri compiti e problemi, sia opportunità educative ai bambini. E’ una questione cruciale alla luce dell’importanza che ormai tutti gli esperti – dai pediatri agli psicologi dell’età evolutiva – riconoscono ai primi tre anni di vita e in particolare ai primi mille giorni per lo sviluppo futuro dei bambini, sottolineando il ruolo cruciale che in questa prospettiva ha sia il lavoro con i genitori, sia la frequenza di un nido di qualità. Lo confermano anche i dati dei test PISA sulle competenze cognitive dei quindicenni: a parità di condizioni economiche famigliari svantaggiate, aver frequentato almeno un anno al nido riduce il rischio di non raggiungere le competenze di base di quell’età. Inoltre, questi studi mostrano che, se i servizi di buona qualità aiutano i bambini a crescere, quelli di non buona qualità non sortiscono tanto un effetto nullo quanto un effetto negativo: in altri termini, è meglio per un bambino rimanere affidato alle sole cure informali familiari piuttosto che frequentare un servizio di scarsa qualità educativa. Sarebbe, quindi, necessario restringere la possibilità di spendere la dote all’utilizzo di servizi per l’infanzia pubblici o privati appartenenti ad una rete di servizi certificati per la loro qualità, accreditati a livello locale ma sulla base di criteri condivisi a livello nazionale. Possono fare parte di questa rete anche i micronidi, i nidi aziendali, o le tagesmutter e simili presenti in alcune zone ove è difficile organizzare un nido, purché siano, appunto, certificate e supervisionate per la loro qualità educativa, e non operino come puri servizi custodialistici.
    Aggiungo che andrebbe esplicitato che la “dote”, pur subordinata nella sua entità all’ISEE, è indipendente dallo status occupazionale dei genitori, in particolare della madre. Anche una madre casalinga ha diritto a ricevere sostegno alla genitorialità e anche i figli di madre casalinga hanno diritto ad ampliare le proprie opportunità educative.
  2. La nota carenza di servizi per la prima infanzia, unita all’assenza del requisito della certificazione di qualità educativa, presenta il concreto rischio che la disponibilità di una dote, da un lato incentivi l’aumento di un’offerta di servizi di mercato poco o per nulla attenta alla qualità, dall’altro incoraggi l’aumento delle rette.

Necessità di integrare l’assegno unico e la dote servizi con l’investimento in servizi
Alla luce delle due osservazioni sopra formulate, mi sembra che, oltre a restringere l’utilizzo della dote a servizi certificati e accreditati, occorra anche prevedere all’interno di questa proposta di legge un investimento per aumentare l’offerta di questi servizi, a partire dall’offerta pubblica.
L’obiettivo di sostenere la genitorialità e le opportunità educative dei bambini, infatti, non può essere affrontato solo dal lato della domanda. Va affrontato anche dal lato dell’offerta. Gli ultimi dati di Save the Children  segnalano che in Italia un bambino su dieci non ha posto in un nido pubblico, con picchi negativi in alcune regioni, per lo più nel Mezzogiorno, dove solo il 2-3% dei bambini dagli zero ai tre anni ha accesso a un nido pubblico. La situazione è solo in parte compensata dai nidi privati (inclusi quelli aziendali) o convenzionati, stante che, secondo i dati di Openpolis, il livello di copertura complessivo in Italia è del 20%, che sale al 24% se si considerano anche le sezioni primavera nelle scuole per l’infanzia. La stragrande maggioranza dei bambini (e dei loro genitori) quindi, è esclusa da questo servizio, con effetti negativi non solo sulla opportunità delle madri di rimanere nel mercato del lavoro, ma sulle pari opportunità tra bambini. A ciò si aggiungano le enormi disparità regionali. Le regioni del nord offrono un posto al nido ad un bambino ogni quattro, alcune regioni del Sud (con l’eccezione della Sardegna che si avvicina alle regioni del Nord) non riescono ad offrirlo neppure ad un bambino ogni dieci.

Occorre, quindi, sviluppare e prevedere nella legge un sostegno economico all’ampliamento dell’offerta di servizi di qualità per la prima infanzia.

Per quali età?
La questione si pone, ovviamente, diversamente nel caso dell’assegno unico e della dote servizi.
Per quanto riguarda l’assegno unico, si può valutare se limitarlo solo ai figli minorenni, eventualmente rendendolo più corposo, o ai maggiorenni fino a 24 anni, purché siano ancora in formazione. Nel caso dei figli disabili, occorrerebbe specificare “senza limiti di età”.

A margine osservo che la lettera d) comma 1 art 2  – “mantenimento degli importi in vigore per coniuge e altri famigliari a carico” – non è chiaro a quali importi si riferisca, al di fuori delle  detrazioni fiscali e che queste ultime presentano il consueto svantaggio per gli incapienti, che non possono fruire di alcuna detrazione.

Per quanto riguarda la dote servizi, la sua estensione sino al compimento del quattordicesimo anno di età rivela l’implicita idea che si tratti di una misura “custodialistica”, destinata a baby sitter, visto che dai tre anni in su i bambini sono a scuola. Se l’obiettivo è sostenere la conciliazione lavoro-famiglia, meglio rafforzare il tempo pieno scolastico di qualità, che avrebbe il duplice effetto aggiuntivo di rafforzare le opportunità educative per i bambini e di creare posti di lavoro di qualità nel sistema scolastico. In alternativa, si potrebbe vincolarne l’uso alla partecipazione ad attività sportive, o di apprendimento della musica, o teatro, cioè ad attività extracurriculari di cui è stata individuata  l’importanza per lo sviluppo dei bambini e da cui spesso sono esclusi i bambini dei ceti economicamente più modesti. Ma, anche qui, potrebbe esserci un problema di offerta (e di accreditamento). Altrimenti, meglio concentrare le risorse sui bambini sotto i tre anni.

Documento presentato in audizione alla Commissione Affari speciali della Camera da Chiara Saraceno che riporta il parere sulla proposta di legge Del Rio, Lepri e altri, n. 687 (XVIII legislatura).