Natalità, genitorialità e buone condizioni di crescita

Come affrontare le quattro sfide strategiche che l’Italia ha di fronte

IL DOCUMENTO DI ALLEANZA PER L’INFANZIA

Fra le sfide strategiche che l’Italia deve affrontare ve ne sono quattro strettamente collegate fra loro: la denatalità e, più in generale, le potenziali difficoltà legate a una soddisfacente genitorialità; l’occupazione femminile; l’occupazione giovanile; le diseguaglianze e il rischio di povertà tra le famiglie con più figli e quindi tra i minorenni.

Tali sfide richiedono risposte integrate per poter essere efficaci ed evitare che si pongano come scelte alternative per le famiglie e per gli individui (lavoro o figli), con il rischio di un arretramento sociale lungo tutte e quattro le dimensioni.

In Italia esiste un divario, fra i più ampi nei paesi occidentali, tra numero di figli desiderato, che rimane attorno a due, e numero effettivamente realizzato, ora sceso a 1,25. La denatalità in Italia non è, quindi, esclusivamente il frutto di cambiamenti nelle preferenze delle persone. Vi è un problema rilevante di aspirazioni non realizzate.

La partecipazione femminile al mercato del lavoro è effettivamente aumentata e sta ancora aumentando. Tuttavia, vi è un gap, anche in questo caso fra i più ampi nei paesi occidentali, fra aspirazioni alla partecipazione ed effettiva occupazione. Siamo uno dei Paesi con più bassa partecipazione femminile al mercato del lavoro – 52,3% a livello nazionale, contro una media europea del 67,7% e con una differenza di 17 punti rispetto agli uomini – oltre che con grandi differenze a livello territoriale: 35,5% nel Mezzogiorno, 61,8% nel Nord, 57% al Centro.

La nascita di figli in Italia finisce per trasformarsi in una ‘penalità’ rispetto a tale partecipazione più severa che in altri Paesi, in quanto è difficile conciliare maternità e lavoro in assenza di politiche pubbliche e aziendali adeguate.

La precarietà che caratterizza la presenza dei giovani di entrambi i sessi nel mercato del lavoro, con i suoi effetti non solo sul reddito corrente, ma sulle prospettive di medio-lungo periodo e sull’accesso a una abitazione, vincola fortemente le scelte di genitorialità, costringendo a dilazionare la scelta di avere un figlio, quando non a rinunciarvi. Inoltre i divari fra aspirazioni e realizzazioni appena indicati colpiscono in maniera forte tutta la popolazione italiana, ma tendono a essere particolarmente acuti per alcuni profili di persone rispetto ad altre.

La fiducia necessaria per effettuare una scelta così impegnativa come il mettere al mondo un figlio, per altro, non riguarda solo i costi in cui si incorre, la valutazione delle possibilità di farvi fronte nel breve e medio periodo. Riguarda anche, da un lato, la fiducia nelle proprie capacità genitoriali, dall’altro la percezione del proprio valore come individui e cittadini agli occhi della collettività.

Le nuove generazioni hanno bisogno di avere di fronte a sé un quadro con alcuni punti che diano loro fiducia rispetto al futuro.

Per sostenere la formazione di fiducia nel futuro e in sé stessi, necessaria per effettuare libere scelte di fecondità, sono certamente indispensabili maggiori garanzie sul piano dell’occupazione, dei salari, dei servizi. Ma occorre anche comunicare nei fatti alle giovani generazioni il fatto che costituiscono un bene prezioso per la società, le loro scelte libere di fecondità troveranno accompagnamento e sostegno anche per quanto riguarda l’esercizio della genitorialità, che i loro figli troveranno un contesto anche extra-familiare in cui crescere bene e sviluppare le proprie capacità a prescindere dalle condizioni di nascita, famigliari, di cittadinanza, di etnia.

Qual è il ruolo delle politiche pubbliche in questo quadro?

Le politiche pubbliche sono anche più importanti che in passato se si vuole coniugare sostegno alla genitorialità, con occupazione femminile e contrasto alle diseguaglianze. Gli studi sul tema ci dicono che nessun Paese maturo avanzato ha visto ridursi i divari sopra-riportati senza mettere in campo misure solide e strumenti efficaci di sostegno alla natalità, all’autonomia (economica e abitativa) dei giovani e all’occupazione femminile. L’assenza di politiche non solo non migliora la situazione ma contribuisce a peggiorarla, soprattutto sotto il profilo della natalità.

I Paesi come, ad esempio, Svezia, Francia e, più recentemente, Germania, che hanno ottenuto risultati incoraggianti rispetto ai temi qui trattati, non si caratterizzano solo per aver impostato nel tempo singole politiche familiari più efficaci e generose di quelle italiane, ma anche per essere in grado di inviare un messaggio di fondo ai giovani: come Stato e come società nel suo complesso vi assicuriamo un sostegno quanto più adeguato possibile.

Quindi occorre una visione ampia e profonda di che cosa siano le politiche familiari, che includa anche quelle del lavoro e della casa. Comunque la ricerca e l’esperienza degli altri Paesi ci dicono che non esiste un singolo strumento in grado di risolvere le sfide qui delineate.

Per ottenere un effetto positivo delle politiche familiari su occupazione femminile e natalità è importante che vi sia un robusto mix integrato di interventi, fatto di trasferimenti monetari strutturali, interventi educativi – nidi e servizi di sostegno all’infanzia e alla genitorialità –, congedi parentali che coinvolgano sistematicamente anche i padri, servizi che facilitino l’organizzazione familiare pomeridiana, sistemi di tutela per le lavoratrici e politiche di welfare a favore di giovani e famiglie, accompagnati da azioni di sensibilizzazione volte a decostruire l’immagine della maternità come ostacolo nel mondo del lavoro e a promuovere modelli culturali basati sulla condivisione dei carichi di cura tra genitori e tra la famiglia e i servizi educativi.  Solo così si può ottenere un effetto più robusto sull’occupazione delle madri e la natalità.

Quanti e chi sono gli occupati in famiglia?

di Chiara Saraceno

La piccola ripresa dell’occupazione ha fatto diminuire le famiglie con persone in età da lavoro nelle quali nessuno è occupato, che però rimangono in numero consistente. Chiara Saraceno rileva il peggioramento della situazione nel Mezzogiorno, anche per quanto riguarda le famiglie con più componenti nelle quali uno solo è occupato. Bassa è, inoltre, la quota delle famiglie con due occupati, con grandi differenze a seconda della presenza di figli e della età di questi, con il consueto grave distacco del Mezzogiorno.

L’Indagine sulle Forze di Lavoro è una fonte preziosa per comprendere non solo l’andamento dell’occupazione, della disoccupazione e dell’inattività, ma anche per conoscere la distribuzione di queste condizioni tra le famiglie. L’Istat ha pubblicato alcuni dati sulla situazione occupazionale nelle famiglie che includono almeno un componente tra i 15-64 anni.¹ Non sono di facile lettura, perché manca un quadro completo e i dati vengono forniti per singoli sottocampioni, a volte eterogenei, a volte parzialmente sovrapposti. Sarebbe opportuno, a questo proposito, che l’Istat investisse di più nella chiarezza comunicativa: non per “raccontare storie” e fornire interpretazioni, ma per rendere adeguatamente leggibili i dati che produce.

Un quadro differenziato e problematico

Al di là delle difficoltà di lettura, la situazione che emerge da questi dati presenta più di una problematicità, soprattutto per quanto riguarda i divari non solo tra Centro-Nord e Mezzogiorno, ma anche tra famiglie giovani con figli e senza figli o tra quelle con figli piccoli e quelle con figli più grandi.

Dopo il forte aumento, dovuto alla crisi, che aveva fatto crescere la percentuale di famiglie prive sia di occupati sia di titolari dal 7,2% del 2004 fino all’11,2% del 2013, non vi è stato nessun calo significativo. Anche se l’Istat ottimisticamente legge così l’11% del 2018. Si tratta di oltre un milione di famiglie di due o più persone in cui almeno una ha meno di 65 anni e nessuno è pensionato, ed un altro milione di persone che vivono da sole, di cui solo una piccola percentuale è inattiva e gode di una pensione. Le altre, o sono in cerca di lavoro (la maggioranza), o sono inattive prive di pensione (probabilmente studenti mantenuti fuori casa dai genitori). La vera novità è che, essendosi ridotta la possibilità di andare in pensione prima dei 65 anni, si è ridotta la quota di famiglie con componenti in quella fascia di età in cui c’è almeno una pensione. Erano il 9,9% di tutte le famiglie (inclusi i soli) nel 2008, il 7,3% nel 2018. Contestualmente sono aumentate le famiglie che contengono almeno un disoccupato o una “forza lavoro potenziale”.

L’Italia, inoltre, continua ad essere un paese in cui prevalgono le famiglie monoreddito, anche quando vi sono più persone. Le famiglie con due o più occupati sono ancora la minoranza, il 44,6% delle famiglie con più componenti, in calo rispetto al 2004, quando erano il 45, 6%. È la conseguenza soprattutto del basso tasso di occupazione femminile, ostacolato non solo da una domanda di lavoro insufficiente, ma anche dalle difficoltà che le donne con carichi familiari hanno nel conciliare famiglia e lavoro, specie se hanno più figli, in assenza di servizi adeguati. Le difficoltà aumentano se le donne hanno una bassa qualifica.

Aumenta il ritardo del Mezzogiorno

La percentuale delle famiglie con persone in età da lavoro con due o più occupati è del 29,3% nel Mezzogiorno, a fronte del 54,3% nel Nord e del 48,9% al Centro. Inoltre, mentre in queste aree sono state recuperato le non esaltanti percentuali pre-crisi, nel Mezzogiorno (dove è più alta anche la quota di famiglie in cui nessuno è occupato e nessuno titolare di pensione) queste sono ulteriormente scese di quattro punti. Se si guarda solo allo status occupazionale delle coppie, le differenze sono vistose. La quota di coppie con entrambi i partner occupati si attesta al 55,4% al Nord, al 50,6% nel Centro, mentre nel Mezzogiorno arriva appena al 26,4%.

Infine, mentre nel Nord e Centro la maggioranza delle famiglie con figli ha due o più occupati (rispettivamente il 65,3% e il 59,9%), nel Mezzogiorno queste sono solo poco più di un terzo. Alle maggiori difficoltà che incontrano in quelle regioni le donne con carichi familiari a stare nel mercato del lavoro, si sommano quelle dei giovani.

Differenze tra coppie e tra uomini e donne con responsabilità familiari

Per le coppie senza figli conviventi prevale, anche se non è la maggioranza assoluta (45,9%), il modello in cui entrambi sono occupati a tempo pieno e solo nel 21% dei casi è occupato solo l’uomo. Nel restante numero di casi vi è una variegata combinazione di full time/part time, un 4,8% in cui è occupata solo la donna oltre a un 6,2% in cui nessuno dei due è occupato. Diversa la situazione delle coppie con figli. Un terzo (34,4%) è caratterizzato dal modello male breadwinner/female carer: solo l’uomo è occupato e la donna si occupa del lavoro familiare. Solo nel 28,6% dei casi sono occupati entrambi full time, mentre nel 19,1% lui è full time e lei è part time. C’è anche un 4,8% di casi in cui è solo la donna ad essere occupata, part time o full time (Cfr. fig.1)

Sono soprattutto le coppie più giovani, con figli verosimilmente più piccoli, a mostrare una maggiore asimmetria di genere nell’occupazione, quindi un divario maggiore rispetto a quelle senza figli conviventi, con le consuete differenze tra Centro-Nord e Mezzogiorno. Il divario aumenta all’aumentare del numero dei figli, a prescindere dall’istruzione della madre, passando dal 32,4% nelle coppie con un figlio al 26,2% nelle coppie con due figli o più; anche se le madri con i livelli di istruzione più alti sono quelle che, anche se con figli piccoli, hanno i tassi di occupazione più elevati.

Questi dati confermano quanto sia difficile per le donne conciliare maternità e occupazione in un contesto poco amichevole sia sul versante dell’occupazione sia su quello delle politiche e che non facilita, tantomeno incoraggia, una diversa divisione del lavoro e delle responsabilità tra padri e madri. Se occorre tenersi stretto l’unico reddito che entra in famiglia, non è possibile negoziare troppo su orari e condizioni di lavoro e neppure sulla divisione del lavoro domestico. Se poi si è l’unico genitore presente, che deve tenere insieme bisogni di cura e bisogni di reddito, le cose diventano ancora più difficili.

Famiglie mono-reddito più a rischio di essere famiglie di lavoratori povere

Questi dati aiutano anche a comprendere perché l’Italia sia uno dei paesi UE in cui è forte, ed è aumentata negli anni della crisi, l’incidenza di famiglie che sono povere pur avendo un componente che lavora. La povertà italiana, infatti, non solo è fortemente concentrata nel Mezzogiorno, dove è alta l’incidenza sia delle famiglie senza redditi da lavoro sia di famiglie monoreddito, ma è un fenomeno diffuso anche tra le famiglie di lavoratori. Nel 2017 si trovava in povertà assoluta il 12% circa delle famiglie con persona di riferimento operaio o assimilato, rispetto all’1,6% del 2008. L’aumento è stato notevole anche per le famiglie con persona di riferimento impiegata, che ora toccano il 6,6% rispetto all’1,1% del 2008 e in minor misura per quelle di lavoratori autonomi, passate dal 2,1 % al 4,5%.² Part time involontario, riduzione degli orari di lavoro, contratti a termine, oltre a salari spesso molto bassi, fanno sì che il lavoro non sempre riesca a proteggere dalla povertà, specie se è uno solo in famiglia ad averlo. Eppure queste condizioni sono in aumento, non solo tra i migranti, che costituiscono una grossa fetta di lavoratori, e famiglie, monoreddito poveri.

Note

¹ ISTAT, Famiglie e mercato del lavoro. Anno 2018, Statistiche Report, 6 Giugno 2018

²Istat, online data base


Pubblicato su Neodemos.info il 28 giugno 2019
https://www.neodemos.info/articoli/quanti-e-chi-sono-gli-occupati-in-famiglia/