Alleanza segnala l’e-book curato da Alessandro Rosina
L’Assegno unico e universale rappresenta uno degli elementi più innovativi delle politiche familiari italiane. Il primo luglio scorso è partita una versione temporanea e da gennaio 2022 la misura entrerà a regime. Neodemos dedica al tema un ebook, curato da Alessandro Rosina, che si propone come strumento utile per chi è interessato ad approfondire caratteristiche, potenzialità e limiti di tale misura, ma anche come essa si configura rispetto a quanto previsto in altri paesi.
Al libro hanno contribuito tra i maggiori esperti italiani ed europei di politiche familiari. È aperto da un contributo di Chiara Saraceno e chiuso da uno di Massimo Livi Bacci. Contiene due interventi di ricercatori della Banca d’Italia sul costo dei figli e sui potenziali effetti redistribuivi.
Nella seconda parte sono raccolti interventi che presentano un ampio quadro delle misure di sostegno alla genitorialità messe in campo nel resto d’Europa (in particolare in Portogallo, Spagna, Francia, Regno Unito, Svezia, Germania, Polonia, Repubblica Ceca, Ungheria, Russia).
L’auspicio è che possa essere uno strumento utile per arricchire in modo informato il dibattito pubblico sul tema, anche al fine di migliorare la domanda di politiche pubbliche di qualità ed efficaci.
Dopo il crollo continuo delle nascite nello scorso decennio, quello appena iniziato si è aperto con un’emergenza sanitaria che rischia di deprimere ulteriormente le scelte riproduttive. A partire dai contenuti del “Piano Colao” e dal “Family Act”, Alessandro Rosina sviluppa alcune considerazioni sull’approccio necessario per politiche familiari efficaci.
La demografia italiana, come ben noto, è in grave sofferenza da molto
prima dell’emergenza sanitaria. In particolare, le nascite nell’ultimo
decennio hanno subito una diminuzione tra le più accentuate in Europa e
con entità maggiore rispetto alle stesse previsioni Istat. Diventa
quindi cruciale non solo ridurre l’impatto negativo dovuto alle
conseguenze del contenimento della diffusione del virus, ma agire con
rinnovata determinazione sui fattori che da troppo tempo vincolano al
ribasso le scelte riproduttive degli italiani.
Un solido piano di ridefinizione e rilancio delle politiche familiari
va costruito su tre cardini. Il primo è quello di riconoscere gli
squilibri demografici come una delle principali fragilità italiane. Il
secondo è favorire un cambiamento culturale che porti a considerare
l’avere figli non solo come un costo individuale a carico delle famiglie
ma un valore colllettivo che rende più solido il futuro comune. A
questo si associa un’impostazione che porti a considerare le politiche
familiari come parte integrante delle politiche di sviluppo (per le
ricadute sull’intreccio tra natalità, occupazione femminile, sviluppo
umano di qualità a partire dall’infanzia). Il terzo è l’impegno a
mettere in campo un sistema di misure integrate con obiiettivi chiari,
impegno a realizzarle e valutazione dell’impatto.
Il “Piano Colao”
Il maggior sforzo finora compiuto sulla definizione del quadro
d’insieme rispetto alla sfida posta dall’emergenza sanitaria e sulle
azioni necessarie per il rilancio del Paese, è rappresentato dal
cosidetto “Piano Colao”. Il rapporto finale pubblicato dal Comitato di
esperti nominati dal Governo e guidati da Vittorio Colao si compone di 102 proposte organizzate in 6 sezioni.
Si tratta di un lavoro di grande rilievo, svolto da riconosciuti
esperti e contenente misure largamente condivisibili. Di fatto è una
attenta selezione di proposte già da tempo presenti e discusse,
opportunamente arricchita in funzione del momento particolare del paese e
della sua esigenza di ripartire mettendosi sui giusti binari.
Risulta però un documento concettualmente debole sul versante
demografico. Il termine “demografia” appare una sola volta in 52 pagine.
Del tutto assenti sono termini chiave che rimandano a sfide cruciali
per il nostro paese (come “invecchiamento”, “immigrazione”, “natalità”).
Ma, soprattutto, i tre cardini sopra indicati sono in buona parte
disattesi. Rispetto al terzo cardine, alcue misure importanti sul tema
della natalità, da tempo indicate dai demografi, sono presenti, ma
riportate come elenco di interventi indipendenti, senza una
esplicitazione della loro azione integrata sul processo di formazione
delle famiglie e sulle scelte riproduttive. Non c’è alcuna indicazione
di quali siano le misure più urgenti e su come possano concorrere in
modo interdipendente su obiettivi predefiniti su cui misurare poi
l’impatto. Questo limite deriva in parte anche dalla debolezza del
secondo cardine. Le politiche familiari nel documento Colao sono ridotte
al ruolo (pur importante, ma limitato) di insieme di interventi per
ridurre gli squilibri di genere. Sono concentrate nel punto 97,
all’interno della sottosezione XXIII (“Promuovere la parità di genere”)
della sezione “Individui e famiglie”.
Tutto questo è coerente con il non aver posto gli squilibri
demografici tra le principali fragilità del Paese (pg. 4) e il non
considerare il loro superamento (o almento contenimento) come uno degli
obiettivi strategici del rilancio dell’Italia (p. 45), disattendendo
così il primo cardine. Rimane in ogni caso la raccolta ragionata più
ricca e aggiornata di interventi di cui complessivamente ha bisogno il
Paese.
Il “Family Act”
Qualche giorno dopo la pubblicazione del Piano Colao il Governo ha
fatto un passo importante sul tema delle politiche familiari approvando
il “Family Act”.
Vedremo come verrà poi nel concreto realizzato e l’effettiva entità
delle risorse destinate. Per ora possiamo risconoscere vari elementi
positivi che nel passato sono stati carenti, non solo come misure ma
anche come approccio.
Un primo aspetto è l’essere un pacchetto di azioni che in modo
sistemico è volto a rafforzare tutte e tre le dimensioni delle poltiche
familiari: il sostegno economico, i servizi, il tempo. In secondo luogo
si tratta di misure non estemporanee ma durature, con riduzione anche
della frammentarietà e disomogeneità. In particolare l’assegno unico
universale va a tutti i bambini (in quanto tali, indipendentemente dalle
caratteristiche dei genitori) e si estende dalla nascita all
diciottesimo compleanno. Questo strumento (evoluzione di una proposta lasciata per anni nei cassetti del Senato
), non consente solo un riordino e una semplificazione dell’esistente,
ma migliora anche efficienza ed equità del sostegno economico (riducendo
gli effetti scoordinati e distorsivi dell’eterogeneità delle condizioni
di accesso). Anche altre misure – si pensi al rafforzamento dei servizi
per l’infanzia sul territorio (a partire dal Sud) e all’estensione del
congedo di paternità a 10 giorni, conformandosi alla direttiva europea –
sono durature e impostate in modo da ridurre la disomogeneità
(territoriale e tra categorie di lavoratori).
Un terzo elemento di rilievo è che si rende eplicito che le politiche
familiari non possono essere limitate al contrasto della povertà.
L’assegno universale ha una parte legata al reddito delle famiglie, ma
risulta efficace se viene percepito come concreto, non simbolico, dal
ceto medio (si vedano, a proposito, anche le osservazioni dell’Alleanza per l’infanzia).
Un quarto aspetto è il fatto di promuovere un cambiamento culturale.
L’assegno con il suo carattere di universalità è coerente con l’idea che
la scelta di avere un figlio non possa essere considerata solo un costo
privato a carico dei genitori ma vada ad arricchire un bene collettivo –
ovvero le nuove generazioni – che consente a tutta la società di
mettere basi più solide al proprio futuro. Inoltre l’incentivo
all’utilizzo del congedo parentale da parte dei padri promuove una
miglior condivisione del ruolo di cura all’interno della coppia.
Un quinto punto di rilievo è che costituisce un segnale di
incoraggiamento verso le famiglie, che arriva in un momento di
particolare difficoltà. Rispetto all’avere un figlio la percezione di un
clima positivo a sostegno di tale scelta è importante quanto le misure
oggettive in sè. Ed è ciò che è mancato con la Recessione economica del
2008-2013, con la conseguenza di un forte crescita del senso di
sfiducia.
Rimangono comunque questioni aperte che troveranno definizione con
l’effettiva implementazione delle misure indicate nel Family Act, a
partire dall’istituzione dell’assegno universale che avverrà attraverso
un decreto legislativo da adottare entro il 30 novembre, in modo da
prevedere una entrata in vigore a parire da inizio 2021. Quante saranno
le risorse effettivamente destinate? A quanto ammonterà il livello di
base dell’importo dell’assegno? Ma sarà importante anche valutare
l’impatto economico che avrà sul ceto medio e come agirà sulle scelte
riproduttive. Una seria valutazione va disegnata nella stessa
implementazione della misura.
Il Family Act potrà determinare la svolta attesa nelle politiche
familiari italiane solo se non sarà considerato un punto di arrivo ma
l’avvio di un solido processo che le porti progressivamente al centro
delle politiche di sviluppo e produzione di benessere del paese.
La piccola ripresa dell’occupazione ha fatto diminuire le famiglie con
persone in età da lavoro nelle quali nessuno è occupato, che però rimangono in
numero consistente. Chiara Saraceno rileva il peggioramento della situazione
nel Mezzogiorno, anche per quanto riguarda le famiglie con più componenti nelle
quali uno solo è occupato. Bassa è, inoltre, la quota delle famiglie con due occupati,
con grandi differenze a seconda della presenza di figli e della età di questi,
con il consueto grave distacco del Mezzogiorno.
L’Indagine sulle Forze di Lavoro è una fonte preziosa per comprendere non solo l’andamento dell’occupazione, della disoccupazione e dell’inattività, ma anche per conoscere la distribuzione di queste condizioni tra le famiglie. L’Istat ha pubblicato alcuni dati sulla situazione occupazionale nelle famiglie che includono almeno un componente tra i 15-64 anni.¹ Non sono di facile lettura, perché manca un quadro completo e i dati vengono forniti per singoli sottocampioni, a volte eterogenei, a volte parzialmente sovrapposti. Sarebbe opportuno, a questo proposito, che l’Istat investisse di più nella chiarezza comunicativa: non per “raccontare storie” e fornire interpretazioni, ma per rendere adeguatamente leggibili i dati che produce.
Un quadro differenziato e
problematico
Al di là delle difficoltà di lettura, la situazione che emerge da questi
dati presenta più di una problematicità, soprattutto per quanto riguarda i
divari non solo tra Centro-Nord e Mezzogiorno, ma anche tra famiglie giovani
con figli e senza figli o tra quelle con figli piccoli e quelle con figli più
grandi.
Dopo il forte aumento, dovuto alla crisi, che aveva fatto crescere la
percentuale di famiglie prive sia di occupati sia di titolari dal 7,2% del 2004
fino all’11,2% del 2013, non vi è stato nessun calo significativo. Anche se
l’Istat ottimisticamente legge così l’11% del 2018. Si tratta di oltre un
milione di famiglie di due o più persone in cui almeno una ha meno di 65 anni e
nessuno è pensionato, ed un altro milione di persone che vivono da sole, di cui
solo una piccola percentuale è inattiva e gode di una pensione. Le altre, o
sono in cerca di lavoro (la maggioranza), o sono inattive prive di pensione
(probabilmente studenti mantenuti fuori casa dai genitori). La vera novità è
che, essendosi ridotta la possibilità di andare in pensione prima dei 65 anni,
si è ridotta la quota di famiglie con componenti in quella fascia di età in cui
c’è almeno una pensione. Erano il 9,9% di tutte le famiglie (inclusi i soli)
nel 2008, il 7,3% nel 2018. Contestualmente sono aumentate le famiglie che
contengono almeno un disoccupato o una “forza lavoro potenziale”.
L’Italia, inoltre, continua ad essere un paese in cui prevalgono le famiglie
monoreddito, anche quando vi sono più persone. Le famiglie con due o più
occupati sono ancora la minoranza, il 44,6% delle famiglie con più componenti,
in calo rispetto al 2004, quando erano il 45, 6%. È la conseguenza soprattutto
del basso tasso di occupazione femminile, ostacolato non solo da una domanda di
lavoro insufficiente, ma anche dalle difficoltà che le donne con carichi
familiari hanno nel conciliare famiglia e lavoro, specie se hanno più figli, in
assenza di servizi adeguati. Le difficoltà aumentano se le donne hanno una
bassa qualifica.
Aumenta il ritardo del Mezzogiorno
La percentuale delle famiglie con persone in età da lavoro con due o più
occupati è del 29,3% nel Mezzogiorno, a fronte del 54,3% nel Nord e del 48,9%
al Centro. Inoltre, mentre in queste aree sono state recuperato le non
esaltanti percentuali pre-crisi, nel Mezzogiorno (dove è più alta anche la
quota di famiglie in cui nessuno è occupato e nessuno titolare di pensione)
queste sono ulteriormente scese di quattro punti. Se si guarda solo allo status
occupazionale delle coppie, le differenze sono vistose. La quota di coppie con
entrambi i partner occupati si attesta al 55,4% al Nord, al 50,6% nel Centro,
mentre nel Mezzogiorno arriva appena al 26,4%.
Infine, mentre nel Nord e Centro la maggioranza delle famiglie con figli ha
due o più occupati (rispettivamente il 65,3% e il 59,9%), nel Mezzogiorno
queste sono solo poco più di un terzo. Alle maggiori difficoltà che incontrano
in quelle regioni le donne con carichi familiari a stare nel mercato del
lavoro, si sommano quelle dei giovani.
Differenze tra coppie e tra uomini
e donne con responsabilità familiari
Per le coppie senza figli conviventi prevale, anche se non è la maggioranza
assoluta (45,9%), il modello in cui entrambi sono occupati a tempo pieno e solo
nel 21% dei casi è occupato solo l’uomo. Nel restante numero di casi vi è una
variegata combinazione di full time/part time, un 4,8% in cui è occupata solo
la donna oltre a un 6,2% in cui nessuno dei due è occupato. Diversa la
situazione delle coppie con figli. Un terzo (34,4%) è caratterizzato dal
modello male breadwinner/female carer: solo l’uomo è occupato e la
donna si occupa del lavoro familiare. Solo nel 28,6% dei casi sono occupati
entrambi full time, mentre nel 19,1% lui è full time e lei è part time. C’è
anche un 4,8% di casi in cui è solo la donna ad essere occupata, part time o
full time (Cfr. fig.1)
Sono soprattutto le coppie più giovani, con figli verosimilmente più
piccoli, a mostrare una maggiore asimmetria di genere nell’occupazione, quindi
un divario maggiore rispetto a quelle senza figli conviventi, con le consuete
differenze tra Centro-Nord e Mezzogiorno. Il divario aumenta all’aumentare del
numero dei figli, a prescindere dall’istruzione della madre, passando dal 32,4%
nelle coppie con un figlio al 26,2% nelle coppie con due figli o più; anche se
le madri con i livelli di istruzione più alti sono quelle che, anche se con
figli piccoli, hanno i tassi di occupazione più elevati.
Questi dati confermano quanto sia difficile per le donne conciliare
maternità e occupazione in un contesto poco amichevole sia sul versante
dell’occupazione sia su quello delle politiche e che non facilita, tantomeno
incoraggia, una diversa divisione del lavoro e delle responsabilità tra padri e
madri. Se occorre tenersi stretto l’unico reddito che entra in famiglia, non è
possibile negoziare troppo su orari e condizioni di lavoro e neppure sulla
divisione del lavoro domestico. Se poi si è l’unico genitore presente, che deve
tenere insieme bisogni di cura e bisogni di reddito, le cose diventano ancora
più difficili.
Famiglie mono-reddito più a
rischio di essere famiglie di lavoratori povere
Questi dati aiutano anche a comprendere perché l’Italia sia uno dei paesi UE
in cui è forte, ed è aumentata negli anni della crisi, l’incidenza di famiglie
che sono povere pur avendo un componente che lavora. La povertà italiana,
infatti, non solo è fortemente concentrata nel Mezzogiorno, dove è alta
l’incidenza sia delle famiglie senza redditi da lavoro sia di famiglie
monoreddito, ma è un fenomeno diffuso anche tra le famiglie di lavoratori. Nel
2017 si trovava in povertà assoluta il 12% circa delle famiglie con persona di
riferimento operaio o assimilato, rispetto all’1,6% del 2008. L’aumento è stato
notevole anche per le famiglie con persona di riferimento impiegata, che ora
toccano il 6,6% rispetto all’1,1% del 2008 e in minor misura per quelle di
lavoratori autonomi, passate dal 2,1 % al 4,5%.² Part time involontario,
riduzione degli orari di lavoro, contratti a termine, oltre a salari spesso
molto bassi, fanno sì che il lavoro non sempre riesca a proteggere dalla
povertà, specie se è uno solo in famiglia ad averlo. Eppure queste condizioni sono
in aumento, non solo tra i migranti, che costituiscono una grossa fetta di
lavoratori, e famiglie, monoreddito poveri.
Note
¹ ISTAT, Famiglie e mercato del lavoro. Anno 2018, Statistiche
Report, 6 Giugno 2018
di Emmanuele Pavolini, Alessandro Rosina, Chiara Saraceno
Le nascite
in Italia sono in continua diminuzione e la condizione dell’infanzia è
caratterizzata da livelli di diseguaglianza inaccettabili in un paese civile.
Come evidenziano Pavolini, Rosina e Saraceno, serve una maggiore consapevolezza
culturale dell’importanza di questi temi e un rafforzamento della capacità di
sviluppare e mettere in campo politiche pubbliche efficaci, a partire dalla
legge di bilancio 2020.
Infanzia e natalità in Italia: un quadro molto
preoccupante
Il tema
dell’infanzia, del sostegno pubblico alla crescita socio-educativa dei minori e
alla natalità, è strategico per lo sviluppo dell’Italia. Un tema ed una sfida
trattati più volte negli articoli di questo sito. Purtroppo, l’Italia non
sembra essere stata capace fino ad ora di sviluppare politiche pubbliche e
interventi collettivi all’altezza.
In Italia
nascono pochi bambini e bambine. È un paese che ormai da tempo si sta
lentamente spegnendo sotto il profilo della vitalità demografica. Il numero
medio di figli per donna è ai livelli più bassi d’Europa (in compagnia della
Spagna) e le nascite sono in continua diminuzione (Figura 1). I dati Istat dei
primi sei mesi del 2019 indicano inoltre un ulteriore calo rispetto al primo
semestre 2018 (208 mila contro 213 mila). L’unico destino che abbiamo è quello
di rassegnarci a squilibri crescenti che erodono le basi del futuro comune?
Le cause
della denatalità non vanno cercate tanto in un calo del desiderio di avere
figli, ma soprattutto nelle difficolta crescenti che incontrano coloro che vorrebbero
averne. Molti genitori non ricevono un sostegno adeguato nella responsabilità
di crescere un figlio, dal punto di vista economico sia delle necessità di cura
ed educative.
Le madri
sono spesso penalizzate sul mercato del lavoro. Una donna lavoratrice su cinque
lascia il lavoro all’arrivo di un figlio per difficoltà nel conciliare
maternità e lavoro. Anche coloro che non lasciano il lavoro pagano una penalità
in termini di rallentamento di carriera e di salario, con effetti di medio
periodo sul benessere economico familiare e di lungo periodo sul valore della
pensione che riceveranno.
Una parte
assolutamente non trascurabile di bambini e bambine sperimenta livelli di
diseguaglianza e di povertà inaccettabili in un paese civile e democratico.
Oltre un minore su dieci in Italia si trova in povertà assoluta.
Benché tutti
gli studi mostrino l’importanza, accanto al ruolo cruciale della famiglia, di
fare esperienze educative precoci in contesti educativi non solo famigliari, in
Italia gli asili nido e, più in generale, i servizi socio-educativi per la
prima infanzia hanno ancora livelli di copertura molto bassi (Figura 2) e costi
che rischiano di renderli inaccessibili per molte famiglie di ceto medio. Sono
inoltre presenti in modo diseguale a livello territoriale, accentuando in molti
casi lo svantaggio verso le aree più povere e marginali, rispetto sia alle
risorse per la conciliazione, sia alle opportunità educative.
Una “finestra di opportunità” per promuovere politiche
per l’infanzia e per la natalità?
Dopo anni in cui le politiche per l’infanzia sono rimaste “quasi congelate”, negli ultimi anni il tema ha cominciato ad entrare nell’agenda politica, dapprima con l’istituzione del fondo per la povertà educativa con la legge finanziaria del 2015, ed ora con l’art. 42 del Disegno di legge di bilancio 2020 e la proposta di legge 687 di Delrio ed altri. Il primo istituisce un fondo unico per le famiglie, accorpando i vari bonus attualmente in vigore e incrementandolo con risorse aggiuntive così a arrivare a 2 miliardi di euro. Il fondo sarebbe destinato da un lato ad un assegno mensile per un anno per i nuovi nati e neo-adottati subordinato a criteri di reddito (il vecchio bonus bebé), dall’altro a costituire una “dote”, sempre subordinata a criteri di reddito, per contribuire al costo del nido per i bambini tra gli 0 e i 3 anni. Il secondo ha l’obiettivo ambizioso di riformare l’intero sistema dei trasferimenti per i figli a favore di un assegno unico per tutti i figli minori ed insieme di introdurre una dote per il pagamento dei servizi educativi e di cura per i bambini.
Gli obiettivi di queste due proposte normative sono condivisibili in linea di massima, ma presentano anche forti debolezze e criticità, come rilevato da più soggetti. Esse sono l’oggetto anche di un documento preparato dalla neo-costituita Alleanza per l’infanzia¹, di cui fanno parte associazioni di diverso tipo oltre ad un gruppo di studiosi, tra cui chi scrive. I punti sollevati sono riconducibili a tre ordini di fattori. Uno è il rischio che il previsto (nel disegno di legge di bilancio) assegno annuale per i neonati si esaurisca in una ennesima misura una tantum, se non inserito da subito in una revisione sistematica e organica dell’insieme dei trasferimenti legati alla presenza di figli minori, così come proposto nel Disegno di legge Delrio ed altri. Un secondo riguarda la dote per il pagamento dei servizi per la primissima infanzia. Esso può costituire un aiuto importante per chi potenzialmente avrebbe accesso ad un nido, ma non può permettersene la retta. Tuttavia non è di nessun aiuto a chi non può neppure prendere in considerazione l’iscrizione al nido semplicemente perché l’offerta è insufficiente o nulla. Si tratta della grande maggioranza dei bambini e delle loro famiglie, oltre il 75% se si tiene conto solo dei nidi pubblici e convenzionati,² poco di meno (fig. 2) se si includono anche quelli totalmente di mercato. Particolarmente scoperte sono le regioni meridionali. Per non creare nuove disuguaglianze, e realizzare quanto stabilito dal DLgs 65/2017 che ha istituito un sistema integrato di educazione e istruzione dalla nascita ai sei anni, occorre aumentare l’offerta di servizi di qualità, pubblici e convenzionati. Una terza questione riguarda i congedi di maternità, paternità e genitoriali. Troppe lavoratrici autonome o precarie sono ancora oggi escluse dal pagamento della indennità di maternità. I congedi genitoriali sono troppo poco indennizzati perché possano essere davvero fruiti e condivisi tra padri e madri. Ovviamente non si possono affrontare tutte insieme e in breve tempo tutte queste questioni. Tuttavia è importante che i passi che si intraprendono non mettano a rischio la coerenza di un disegno riformatore.
Note
¹ Ne fanno
parte al momento ACTA, ARCI, Associazione Culturale Pediatri, Centro per la
salute del bambino, CGIL,CISL, UIL, Cittadinanza attiva, Gruppo nazionale nidi
e infanzia, Legacoopsociali, Save the Children, Sbilanciamoci, Unicef Italia.