Pubblicato il piano italiano per la Child Guarantee “Giuste radici per chi cresce”

Dopo la revisione da parte dell’Ue, il testo ha raggiunto la versione definitiva e può iniziare il percorso operativo e di disseminazione a livello nazionale. Obiettivi e roadmap per un programma di ampio respiro, fino al 2030. Pari quasi a 1 miliardo di euro le risorse a disposizione

La redazione di VITA informa della pubblicazione del piano italiano per la Garanzia Infanzia.

Il piano nazionale è stato elaborato in seno al Gruppo di lavoro denominato “Politiche e interventi sociali in favore dei minorenni in attuazione della Child Guarantee” istituito con decreto del ministro del Lavoro e delle Politiche sociali e presieduto dalla coordinatrice nazionale, Anna Maria Serafini, che Vita ha intervistato di recente.
Ecco alcuni estratti dell’intervista:

Il Piano italiano non ha ancora una gran visibilità in Italia. Cosa possiamo dire dei suoi contenuti?

Serafini: “Lo renderemo pubblico nei prossimi giorni. È un piano robusto. Abbiamo creato quattro sottogruppi di lavoro, coinvolgendo complessivamente oltre 150 stakeholder per definire il piano lungo quattro assi: istruzione, sanità, politiche sociali e per la famiglia, governance. L’impianto della Child Guarantee dice che bisogna intervenire per contrastare lo svantaggio e le disuguaglianze sociali in questi ambiti, a partire dai soggetti più svantaggiati ma dice anche che bisogna prevenire il formarsi delle disuguaglianze: quindi chiede un’azione riparativa ma anche una preventiva. Parlare di azione preventiva porta subito al tema dell’universalità”.

“Abbiamo fatto una discussione molto importante su questo e abbiamo concluso che sono necessari i Livelli essenziali delle prestazioni sociali per lo 0-18: non c’è stato nessuno degli stakeholder che non abbia sottolineato l’importanza di questo passo. La presa in carico dei primi mille giorni, per esempio, può diventare un livello essenziale importante, insieme a Pippi, perché sappiamo che uno dei punti in cui le disuguaglianze si formano è proprio quando le neomamme vengono lasciate sole”.

Nel Piano è previsto l’accesso gratuito alla mensa scolastica per tutte le bambine e i bambini con Isee inferiore a 9.500 euro già a partire dall’as 2022/23, quello che sta iniziando in questi giorni. Perché non se ne sa nulla? Parte davvero quest’anno?

Serafini: “Mi auguro di sì e non ho motivi per dubitarne, anche perché il ministero dell’Istruzione ha già fatto un fortissimo investimento in tal senso”.

La Child Guarantee su questo è esplicita: chiede che «ogni bambino abbia un pasto sano gratuito al giorno a scuola». Quindi è chiaro che si farà, estendendo anche il tempo pieno. La gratuità di nidi e scuole dell’infanzia da un lato e delle mense scolastiche dall’altro sono due priorità per prevenire lo svantaggio sociale. Forse sono anche i due punti che raccontano meglio l’incrocio tra intervento preventivo e riparativo”.  

Alcuni di questi temi li ritroviamo anche nei programmi per le elezioni del 25 settembre, ma poco spiegati. Tant’è che suonano come promesse troppo costose per essere credibili. Perché non si dice apertamente che sono decisioni già prese e che ci sono anche già le risorse – quasi un miliardo – per realizzarle?

Serafini: “Però sappiamo anche che la campagna elettorale si gioca nelle ultime due settimane, quindi mi aspetto che qualcosa cambi d’ora in avanti. Finora effettivamente la linea delle politiche sociali non è emersa nel dibattito. Il punto è che la Child Guarantee esprime una visione del welfare diversa dal passato. Noi finora abbiamo distribuito le risorse del welfare in primo luogo tramite deduzioni e poco con distribuzione diretta. Dentro la distribuzione diretta, poi, abbiamo prediletto il cash a scapito dei servizi. Abbiamo bisogno di fare l’opposto: più distribuzione diretta come l’assegno unico e lì dentro la parte del leone la devono fare i servizi. Il formarsi delle diseguaglianze di argina così. Con la Child Guarantee stiamo parlando di servizi. Lo Stato deve assumersi questa responsabilità, garantire i servizi e dare delle Linee guida per i livelli essenziali che essi devono fornire.

Il cambio di governo inciderà sull’attuazione del Piano?

Mi auguro fortemente di no. Il Piano è approvato, con i suoi obiettivi, i suoi step e con quasi un miliardo di risorse già inserite nei Pon, che sono risorse europee e non si toccano. Peraltro, lo ripeto, tutti i passaggi sono stati fatti con una grandissima concordia: abbiamo speso molto tempo nella discussione perché il Piano fosse davvero comune e condiviso.
Sarebbe veramente grave se il Piano non potesse attuarsi.

C’è già una cabina di regia o bisognerà attendere il nuovo Governo?

La cabina di regia è già formata. I quattro ministeri coinvolti hanno indicato i nomi, così come l’Anci e la Conferenza Stato Regioni. Manca solo la firma dei due ministri e poi ci sarà l’insediamento. La cabina di regia è fondamentale nella fase di redazione della legge di bilancio, non potevamo aspettare.

Family Act, il momento giusto è adesso

di Chiara Saraceno

Leggi l’articolo su La Stampa, 11 Aprile 2022

Il Senato il 6 aprile scorso ha approvato in via definitiva a larga maggioranza il Family Act: una legge delega al Governo che impegna quest’ultimo ad approvare una serie di provvedimenti a sostegno delle famiglie con figli, della genitorialità, dell’accesso delle bambine/i e degli adolescenti a occasioni educative formali e informali. Si tratta di un ambizioso progetto di intervento a tutto tondo in un capo, le politiche per le famiglie, a lungo negletto in Italia.

Come legge delega, è una legge di indirizzo, che andrà riempita concretamente da leggi più puntuali, come è già avvenuto per l’assegno unico universale che ne costituiva originariamente il primo passo, ma che era stato poi scorporato per consentirgli un’attuazione più rapida. Non è tuttavia una scatola vuota, perché contiene indicazioni precise sulla direzione che dovranno prendere le leggi attuative: un allargamento e maggiore fruibilità dei congedi di maternità e parentali per tutte le lavoratrici e lavoratori, un rafforzamento del congedo di paternità per favorire un riequilibrio nelle responsabilità genitoriali tra madri e padri, il riconoscimento dell’importanza educativa delle attività extracurriculari, l’accesso alle quali quindi non può essere vincolato alle disponibilità economiche della famiglia e allo stesso tempo la riduzione dei costi dell’educazione formale a partire dal nido.

Desta qualche perplessità che, mentre non viene ipotizzata nessuna cifra a finanziamento di queste varie misure, quasi tutte, non solo, come è ovvio, i congedi, sono formulate sotto forma di voucher o detrazioni, in controtendenza con la pulizia e razionalizzazione operata con l’assegno unico e anche con il dibattito in corso sulla opportunità di ridurre la massa di detrazioni che disegnano un welfare fiscale spesso opaco e diseguale, come documentato anche dal recente volume La mano invisibile dello stato sociale, a cura di Matteo Jessoula e Emmanuele Pavolini, edito da il Mulino. Un più chiaro orientamento al rafforzamento dell’offerta di servizi e della loro qualità avrebbe migliorato non solo l’universalismo, ma anche l’efficacia rispetto all’obiettivo di sostenere insieme le scelte positive di fecondità e l’occupazione delle madri.

La legge delega ora inizia il suo iter di formulazione e poi approvazione delle leggi attuative: un processo che richiederà attento monitoraggio e azione di indirizzamento da parte dei soggetti della società civile interessati, in primis, ma non esclusivamente, il movimento e le associazioni delle donne, perché il tutto non si perda per strada prima della fine della legislatura e sia coerente con la riforma fiscale da un lato, l’attuazione del PNRR (in cui il family act viene richiamato) dall’altro. Questi passaggi non sono mai semplici nel nostro Paese e sono particolarmente a rischio nella situazione attuale, in cui la nuova emergenza, sommandosi a quelle precedenti, fa cambiare l’agenda e le priorità ogni giorno.

A fronte della persistente povertà di molte famiglie con figli, alla perdita del lavoro da parte di molte madri e al rischio che la crisi energetica produca nuova disoccupazione sia femminile sia maschile, alle difficoltà crescenti che molte famiglie stanno sperimentando nel fronteggiare sia i costi energetici sia quelli alimentari, riformare i congedi o distribuire qualche voucher per permettere a ragazzi/e di praticare uno sport, imparare a suonare uno strumento, fare un viaggio di istruzione, può sembrare un’esigenza secondaria. Perché per molte famiglie l’alternativa non è quella formulata infelicemente da Draghi, tra la pace e l’uso del ventilatore in estate, ma tra pagare l’affitto o il riscaldamento, non andare in mora con le bollette o nutrire adeguatamente i propri figli, permettere loro di scegliere il corso di studi più corrispondente alle loro inclinazioni o quello che si pensa porti più velocemente ad una occupazione.
Se non si vuole che la solidarietà all’Ucraina venga meno, è a chi vive queste alternative che occorre pensare nel valutare attentamente come distribuire i costi e i sostegni derivanti da questa nuova, drammatica, emergenza. Allo stesso tempo il family act, se inserito in una azione di robusto rafforzamento dei servizi (che sono anche fonte di offerta di lavoro buono), può fornire la prospettiva non solo emergenziale in cui creare condizioni favorevoli alle famiglie con figli, anche non abbienti e senza condizionatore. Per questo non va accantonato in attesa di tempi migliori.

Se la nuova scuola resta impreparata

di Chiara Saraceno

7 settembre 2021

Leggi l’articolo su La Stampa

La scuola è davvero preparata a riaccogliere docenti, studenti, personale tecnico, ad affrontare per il terzo anno le esigenze, e le incognite, di una pandemia ancora non vinta e le aspettative e i bisogni di studenti che vengono da due anni in cui hanno fatto scuola spesso in modo irregolare e discontinuo, comunque in molti casi per lo più a distanza?

È lecito avere qualche dubbio. Tutta l’attenzione si è concentrata sulle, importantissime, vaccinazioni, lasciando ai margini tutto il resto. Non risulta che si siano attrezzate aule a sufficienza, e aumentato proporzionalmente l’organico per tutto l’anno scolastico, per ridurre il numero di allievi per classe e garantire il distanziamento necessario, né che si sia provveduto a introdurre in modo sistematico sistemi di areazione meno primitivi della finestra aperta. Anzi, il comitato tecnico-scientifico, dando per scontato che le cose stiano così, ha ridotto la distanza minima necessaria contando su mascherine e ricambio frequente d’aria. Quanto ai trasporti, l’introduzione di un controllore di mascherine e numero massimo di passeggeri, può servire a chi riesce a salire su un autobus, tram o treno, ma non a chi rimane a terra perché non ci sono abbastanza mezzi. Si ha la sensazione che sul piano logistico l’attenzione fosse maggiore, anche se non sufficiente, lo scorso anno.

Ma il silenzio e la disattenzione non riguardano solo le questioni logistiche. Riguardano anche il tipo di scuola, i modelli di didattica e apprendimento con cui ci si avvia al nuovo anno scolastico. Qui sembra che nulla sia avvenuto, che questi due anni siano semplicemente da lasciare alle spalle, ricominciando da dove, un anno e mezzo fa, la pandemia ha imposto una frattura. Come se gli studenti che in questi giorni entrano nelle aule non avessero nel loro bagaglio di esperienza quanto è avvenuto, a scuola ma non solo. E come se, quanto di positivo e negativo sul modo di fare didattica e favorire gli apprendimenti non fosse rilevante ai fini del modo di fare scuola “normale”.

Gli studenti e le studentesse che in questi giorni iniziano il primo anno della scuola secondaria di secondo grado, ad esempio, vengono da due anni in cui sono stati pochissimo in aula. Quindi non hanno maturato, non solo i ritmi della scuola in presenza, ma anche le modalità di interazione tra pari e con gli/le insegnanti propri delle relazioni faccia a faccia in contesti formali e di negoziazione dei confini e distinzioni tra scuola e casa.

Comunque tutti/e, specie nella scuola secondaria di primo e secondo grado, hanno sperimentato modalità di studio e apprendimento in parte differenti. E molti hanno accumulato deficit di apprendimento e prima ancora di capacità e motivazione ad apprendere in una misura tale da far parlare di “dispersione implicita”, che si aggiunge a quella, già elevatissima in Italia, esplicita.
Si tratta, infatti, di studenti e studentesse che non hanno formalmente abbandonato la scuola, ma in qualche modo si sono “scollegati”, perché i loro apprendimenti non consentono loro di stare al passo, innescando un circolo vizioso di perdita di motivazione e interesse. Le attività di recupero svolte all’inizio dell’estate o nelle settimane precedenti l’inizio della scuola non sono certo sufficienti a rivitalizzare, o suscitare, motivazioni e curiosità.

Nei mesi scorsi si era fatto un gran parlare – anche da parte di associazioni di vario tipo che lavorano sul territorio, incluse quelle raccolte nella sovra-rete EducAzioni – della necessità di usare la terribile esperienza della pandemia per ripensare il sistema scuola – dall’edilizia, al rapporto con il territorio, alle modalità didattiche – per renderlo più adeguato alla sua missione di sviluppo delle capacità dei più giovani e di contrasto alle disuguaglianze nelle opportunità di crescita. Sono sicura che chi fa parte di queste associazioni e molti insegnanti sono impegnati, là dove operano, perché questa possibilità non si chiuda. Ma è disperante che tutto il dibattito sulla scuola negli ultimi mesi si sia ridotto al dibattito sulla obbligatorietà o meno dei vaccini per il personale scolastico.

Afghanistan, i bambini soli di Kabul

Nel Paese 10 milioni di minorenni hanno bisogno di aiuti

di Chiara Saraceno

La Repubblica, 19 agosto 2021

Le immagini che mostrano folle, in stragrande maggioranza di uomini, che tentano la fuga dall’Afghanistan sembrano confermare indirettamente che poco o nulla era cambiato in quel Paese nei rapporti tra uomini e donne e tra le generazioni, ma anche tra città e zone rurali, nei vent’anni di occupazione da parte delle truppe Nato. Nella maggior parte del Paese e dei gruppi sociali vigeva la legge islamica, le adultere venivano ancora arrestate, fustigate e lapidate, i matrimoni forzati delle bambine continuavano a essere la norma. Quasi quattro milioni di bambine e bambini non andavano a scuola e le violenze contro i minori erano diffuse, così come i reclutamenti forzati per farne dei soldati.

Secondo l’Unicef, l’Afghanistan è da molti anni uno dei posti peggiori sulla terra dove essere un bambino o una bambina. A ciò si aggiunga, negli ultimi due anni, la siccità e le conseguenze del Covid 19, che hanno avuto un impatto devastante sulle stesse chance di sopravvivenza della popolazione più povera, lontana dall’occhio dei media nazionali e internazionali, e ancor più tra i bambini in essa. Come segnala anche Save the Children, la situazione umanitaria per i bambini in Afghanistan era già disastrosa. L’accelerazione del conflitto armato e gli sfollamenti di massa hanno peggiorato una situazione già grave.

Nelle parole del capo delle operazioni sul campo e dell’emergenza dell’Unicef, Mustapha Ben Messaoud: “Ogni singolo giorno che passa, l’acutizzarsi del conflitto in Afghanistan impone un tributo maggiore alle donne e ai bambini del Paese. Infatti, dall’inizio dell’anno, più di 550 bambini sono stati uccisi, 1400 feriti. Tragicamente, come ha chiarito il quinto rapporto del Segretario Generale dell’Onu sui bambini e il conflitto armato in Afghanistan – le perdite di minori nella prima metà di quest’anno hanno costituito il più alto numero di bambini uccisi e mutilati da quando i casi vengono registrati dalle Nazioni Unite”.

Si prevede che, senza un’azione urgente, 1 milione di bambini sotto i 5 anni saranno gravemente malnutriti entro la fine del 2021, e 3 milioni soffriranno di malnutrizione acuta moderata. Molti di loro vivono nei campi dove si raccolgono gli sfollati, che spesso mancano di beni essenziali, a partire dall’acqua. Altri vivono per strada, con o senza adulti.

Unicef stima che dei 18 milioni (la metà circa della popolazione afghana) che ha bisogno di assistenza umanitaria, 10 milioni siano minorenni. È altamente improbabile che queste bambine e bambini, e le loro mamme, possano anche solo pensare di raggiungere un aeroporto dove lottare per un passaggio fuori dal Paese, abbiano “titolo” per essere considerati meritevoli di protezione internazionale, a causa della collaborazione con i paesi Nato occupanti, per entrare in un qualche corridoio umanitario che li trasporti in luoghi più sicuri. Difficilmente, ora come ieri, suscitano l’attenzione solidale riservata a chi sta per perdere, o ha già perso, ciò che credeva di aver conquistato e comunque faceva parte della piccola quota dei “visibili” allo sguardo occidentale.

È sicuramente importante e doveroso che vengano aperti corridoi umanitari per le donne e i bambini che vogliono, o devono, fuggire dal Paese. Lo chiedono molte associazioni della società civile, impegnandosi anche a mettere a disposizione risorse e competenze per favorire l’accoglienza di chi arriverà. Ma occorre pensare a chi invece rimane, soprattutto ai più piccoli, per motivi di umana decenza, innanzitutto, ma anche per evitare, come non si è fatto abbastanza in questi vent’anni, di lasciare nella invisibilità una parte numericamente così ampia della generazione più giovane, rendendola facile preda, se riesce a sopravvivere, di ogni potere violento.

Per questo Unicef e Save the Children chiedono di poter continuare a svolgere il loro lavoro in quel Paese, in condizioni di sicurezza.

Se anche Azzolina ripudia la sua Dad

di Chiara Saraceno

13 gennaio 2021, La Stampa

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«La Dad non funziona più». «Oggi è difficile per gli studenti capire perché non si riapre: hanno ragione, capisco le loro frustrazioni e le loro difficoltà. La scuola è un diritto costituzionale, se a me l’avessero tolta probabilmente non sarei qui». A formulare questi giudizi non sono i ragazzi, o i loro genitori e neppure gli insegnanti, ma la ministra dell’Istruzione. Per quanto si possa essere d’accordo nel merito, si tratta di una affermazione devastante se fatta da chi ha la responsabilità di far funzionare la scuola e di garantire il diritto costituzionale all’istruzione a tutti, in condizioni di parità, a prescindere dalle condizioni personali e familiari. Lungi dall’essere, come era nelle intenzioni, una manifestazione di solidarietà con gli studenti e le studentesse, è una dichiarazione di impotenza che lascia scoraggiati e senza interlocutore.

Nel conflitto tra ministra e presidenti di Regione si è raggiunto il punto forse più drammatico di una governance impazzita, in cui a perdere sono i cittadini, in questo caso in primis gli studenti, ma anche la ministra, la sua autorevolezza, credibilità, quindi in ultima istanza legittimità. Perché il governo della scuola spetta a lei. A lei spetta trovare accordi tra tutti i soggetti coinvolti direttamente e indirettamente nella scuola, ricostruendo la filiera delle dimensioni necessarie non solo a farla funzionare, ma a renderla accessibile. Una ricostruzione che era già mancata nella preparazione della riapertura a settembre, quando ci si era concentrati su spazi e banchi, ma si era ignorata la questione dei trasporti. E di nuovo ora, quando si erano immaginati, in contrasto con il parere dei presidi, slittamenti orari e turnazioni che avrebbero richiesto una radicale riorganizzazione della didattica, più insegnanti, oltre che della vita quotidiana delle studentesse e degli studenti. Certo le responsabilità di queste mancanze, di questi fallimenti, al netto dell’andamento pandemico, sono distribuite su più soggetti, non sono solo dalla ministra. Ma in ultima istanza è lei che deve risponderne, perché è lei la garante del diritto costituzionale all’istruzione, che è stato troppo a lungo trascurato in questo lungo anno, anche da lei.

La ministra ha dichiarato anche di essere preoccupata «per il deflagrare della dispersione scolastica». Fa bene ad esserlo. Perché la Dad non ha lo stesso impatto negativo su tutti i ragazzi e ragazze. Certo, sta deprivando tutti gli adolescenti del normale scambio e confronto che può avvenire solo nella quotidianità di relazioni faccia a faccia. Impone a tutti una dose di affaticamento aggiuntiva nel processo di apprendimento, tanto più, come succede troppo spesso, gli insegnanti non sono in grado di adattare il loro stile didattico non solo allo strumento digitale, ma al contesto di relazioni, di classi, solo virtuali. Ma per le e gli adolescenti più fragili, o in condizioni materiali disagiate quando non difficili, la Dad ha costituito e costituisce un aggravamento inaccettabile, per le cause note e già più volte discusse, anche su questo giornale. Non risulta tuttavia che dal ministero siano state promosse azioni sistematiche per contrastare i danni che si stavano provocando, al di là del finanziamento per qualche strumento informatico da dare in comodato. Non è stato fatto questa estate e neppure alla ripresa delle lezioni a settembre. I corsi di “riallineamento” sono stati per lo più lasciati da parte ben presto in ogni ordine di scuola, tra mancanza di insegnanti (che continua a permanere, con molte classi che tutt’oggi non hanno insegnanti in materie fondamentali) e interruzioni dovute all’esposizione al contagio. Nella secondaria superiore sono stati cancellati dalla messa in Dad totale a poche settimane dall’inizio delle lezioni, senza che si sia pensato di promuovere in modo sistematico forme di tutoraggio, costituzione di piccoli gruppi di prossimità, magari in spazi con connessioni internet stabili, per sostenere i ragazzi/e più fragili o con maggiori difficoltà, coinvolgendo l’università, le associazioni civiche e di terzo settore. Non vi è neppure un vero monitoraggio delle perdite di apprendimento e degli abbandoni, così come della qualità della didattica a distanza. Certo, non tutto dipende dalla ministra e dal ministero, molto può e deve essere fatto a livello delle singole scuole. Ma, di nuovo, dichiararsi preoccupata senza fare nulla è una dichiarazione di impotenza che un ministro non può permettersi senza delegittimarsi.