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La popolazione continua a diminuire: quale impatto sul welfare italiano?

I nuovi dati Istat confermano l’andamento demografico negativo del nostro Paese: nel 2019 si è registrato il ‘ricambio naturale’ più basso dal 1918.

di Valentino Santoni

I dati Istat pubblicati nell’ultimo Report sugli indicatori demografici confermano una drammatica tendenza per il nostro Paese: sempre meno nascite. Il che significa una popolazione tendenzialmente in calo e un “peso” sempre più consistente delle fasce più anziane della popolazione. Secondo l’Istituto Nazionale di Statistica il 2019 si è caratterizzato per una riduzione della popolazione residente nel nostro Paese e per il più basso livello di “ricambio naturale” (cioè il rapporto tra i nati e i morti al netto del fenomeno migratorio) registrato nel nostro Paese dal 1918. Lo scorso anno le nascite sono state infatti solo 435mila e i decessi 647mila, il che porta a un saldo naturale di -212mila unità; una tendenza solo parzialmente attenuata dai flussi migratori provenienti dall’estero, che hanno portato a un aumento di 143mila unità (risultato di 307mila iscrizioni all’anagrafe a fronte di 164mila cancellazioni).

Nascono sempre meno bambini

Il tasso di fecondità – cioè la media di figli per donna in età feconda – è rimasto costante con quelli espressi nel 2018: 1,29 figli per donna. Da ormai qualche anno le stime evidenziano però come questo tasso sia sempre più elevato al Nord (dove la media è pari a 1,36 figli per ogni donna), rispetto al Mezzogiorno (1,26) e al Centro (1,25). I dati dicono che, in particolare, ai vertici della classifica si trovano la Provincia di Bolzano (con 1,69 figli per donna) e quella di Trento (1,43) a cui seguono Lombardia (1,36), Emilia-Romagna (1,35) e Veneto (1,32). Un dato che negli ultimi 25 anni si è totalmente ribaltato. Nel 1995, anno in cui è registrato il tasso di fecondità più basso nella storia del Paese (1,19), nel Mezzogiorno si registravano tassi molto più alti (1,41) rispetto a Nord (1,05) e Centro (1,07). Un dato che fa intuire come esista una forte correlazione tra intenzioni riproduttive e opportunità – in primis legate a lavoro e servizi – garantite da un maggior sviluppo economico e sociale, influenzato anche dal tema delle migrazioni interne.

Allo stesso tempo, tende ad aumetare l’età media al momento del parto, che ad oggi supera i 32 anni. Un dato che, come spiega anche Alessandro Rosina nel volume “Il futuro non invecchia”, anche in questo caso è riconducibile a diversi fattori quali la mancanza – spesso cronica – di servizi per la prima infanzia e le condizioni di incertezza generate dalle attuali contingenze economica.

Al contempo, continua a crescere la speranza di vita, seppur meno marcatamente rispetto al passato e con notevoli differenze tra maschi e femmine. L’Istat stima che a livello nazionale la speranza di vita alla nascita di un uomo è pari a 81 anni; per le donne arriva invece a 85,3. Per gli uni come per le altre l’incremento sul 2018 è pari a 0,1, corrispondente a un mese di vita in più. Anche in questo caso la variabile geografica sembra giocare un ruolo decisivo. Nel Nord-Est, ad esempio, la speranza di vita alla nascita si attesta a 81,6 anni per gli uomini e 85,9 per le donne; nel Meridione si vive invece mediamente un anno di meno: la stima è 80,2 anni tra gli uomini e 84,5 tra le donne.

Questi dati si inseriscono in un quadro sociodemografico che ormai da alcuni anni appare sempre più chiaro: l’età media continua ad aumentare (45,7 anni) perché le persone con più di 65 anni hanno un “peso” sempre maggiore all’interno della società mentre quelle con meno di 18 sono sempre di meno. Le stime sul 2018 dicono che gli over 65 sono il 22,8% della popolazione, mentre i minorenni sono appena il 16,2%. 

Il tema delle migrazioni interne

Una delle dinamiche su cui riflettere è anche il forte gap venutosi a creare tra Nord e Sud anche per quanto riguarda le dinamiche demografiche. Il calo della popolazione si concentra infatti prevalentemente nel Mezzogiorno (-6,3 per mille) e in misura inferiore nel Centro (-2,2 per mille); nel Settentrione invece le tendenze sono ribaltate e si registra un aumento pari a 1,4 per mille.

Il fenomeno è in parte legato ai diversi tassi di natalità delle Regioni, ma è condizionato soprattutto dal fenomeno della migrazione interna, cioè dall’aumento degli spostamenti dal Centro e dal Sud verso le regioni del Nord. Lo sviluppo demografico più importante si è registrato nelle Province autonome di Bolzano e Trento, con tassi di variazione rispettivamente pari a +5 e +3,6 per mille; rilevante in tal senso è anche l’incremento osservato in Lombardia (+3,4 per mille) ed Emilia-Romagna (+2,8). La Toscana, pur con un tasso di variazione negativo (-0,5 per mille), è la regione del Centro che contiene maggiormente la flessione demografica. Totalmente contrapposte sono le condizioni delle regioni del Sud: le situazioni più critiche sono quelle di Molise e Basilicata che, nel corso dell’ultimo anno, hanno visto la propria popolazione ridursi quasi dell’1%.

Anche in questo caso i temi del lavoro, dei servizi e, in generale, della miglior qualità di vita offerta dalle regioni settentrionali appaiono fortemente correlati al fenomeno.

Quali conseguenze per il nostro sistema di welfare

Come spesso abbiamo sottolineato questo andamento demograficova inevitabilemente a incidere sulla sostenibilità presente – e soprattutto futura – del welfare state.

Per citare brevememente alcuni esempi concreti: nel campo delle pensioni, in assenza di ricambio generazionale, si sta progressivamente modificando il rapporto tra pensionati e popolazione attiva, ovvero quella fascia di persone che contribuiscono maggiormente alla crescita del PIL e che, tramite fiscalità generale e contributi, finanziano il sistema previdenziale che già ora appare sempre meno sostenibile. Nel campo della sanità crescono le persone affette da patologie (spesso croniche) legate all’età anziana: un elemento che inevitabilmente sta portando all’aumento dei costi a carico del Sistema Sanitario Nazionale. Accanto ai bisogni sanitari aumentano infine anche le necessità di cura e assistenza di lungo periodo (la cosiddetta Long Term Care, di cui ci occupiamo attraverso il focus InnovaCAre).

E la situazione non è destinata a migliorare. Le stime ci dicono che, in base alle tendenze attuali, la popolazione con più di 65 anni nel 2060 rapresenterà il 30% della società italiana (oggi è il 22,3%), mentre gli over 80 arriveranno al 13% (il doppio rispetto al 6,5% odierno). 

Da dove partire per evitare il peggio? 

Come affrontare questa situazione? Come ha evidenziato pochi mesi fa Maurizio Ferrera, appare più che mai urgente promuovere una vera e propria trasformazione dell’attuale sistema di sostegno alla famiglia, ancora basato su un sistema di bonus e trasferimenti monetari. Ferrera sostiene che per “invertire la rotta” è essenziale promuovere servizi tout court, sia per la genitorialità – in primis asili – sia per l’assistenza agli anziani; inoltre, in prospettiva sarà cruciale anche sostenere maggiormente politiche legate alla conciliazione vita-lavoro, alla flessibilità dei tempi e di secondo welfare, come il welfare aziendale e la previdenza complementare.

In questa direzione, negli ultimi mesi si è tornati a parlare della possibilità di introdurre un Assegno Unico per la famiglia, un intervento che punta a accorpare le risorse che attualmente sono distribuite in forma di bonus e agevolazioni (tra cui le detrazioni fiscali per i figli minori a carico e gli assegni per il nucleo familiare) con l’obiettivo di semplificare il meccanismo e ottimizzare le risorse economiche esistenti.

Anche al fine di incentivare queste iniziative, che necessitano anzitutto di una forte volontà politica, poche settimane fa è nata l’Alleanza per l’Infanzia.Si tratta di un network promosso da diversi soggetti – appartenenti al mondo dell’associazionismo, alla società civile e al mondo della ricerca – che, avendo a cuore il futuro di bambini e adolescenti, condividiono la responsabilità e l’urgenza sia di sensibilizzare e fare pressione perché siano attuate riforme e iniziative necessarie a invertire il trend demografico, ma anche sollecitare e sostenere le imprese e le comunità locali perché costruiscano ambienti più favorevoli ai bambini/e, ai ragazzi/e e ai loro genitori.

Articolo pubblicato lunedì 17 febbraio 2020 su Secondo Welfare

La popolazione continua a diminuire: quale impatto sul welfare italiano?

IMG ISTAT

Culle vuote: i dati che ne spiegano le cause

La popolazione italiana continua a diminuire. Tra le ragioni del fenomeno, ci sono le difficoltà delle giovani donne sul mercato del lavoro e la mancanza di adeguati servizi per l’infanzia. Fa bene dunque il governo a pensare a una soluzione complessiva.


I numeri della denatalità

La popolazione residente in Italia continua a diminuire – meno 116 mila persone su base annua a gennaio – con un progressivo ampliamento del saldo negativo tra nascite e decessi. Nel 2019 sono nati 67 bambini ogni 100 persone decedute. Solo dieci anni fa, il rapporto era quasi alla pari, 97 a 100. Segnala l’Istat che se il saldo migratorio non fosse ancora positivo, anche se in misura decrescente, il ricambio della popolazione apparirebbe compromesso.

La bassa e ancora declinante natalità è innanzitutto la conseguenza del forte assottigliamento delle coorti in età potenzialmente fertile, contro un innalzamento delle speranze di vita che ingrossa le file delle coorti più vecchie. A questo vincolo puramente demografico si deve aggiungere, tuttavia, il perdurare di un tasso di fecondità che, con 1, 26 figli per donna, si avvicina al livello finora più basso, toccato nel 1995 (1,2).

Le difficoltà delle donne

La piccola ripresa della fecondità che aveva segnato gli anni a cavallo del nuovo millennio, infatti, è stata fermata dalla crisi iniziata nel 2008, che ha colpito particolarmente le generazioni più giovani, in difficoltà nel formare una famiglia, stante quelle che incontrano a entrare nel mercato del lavoro e ad assicurarsi redditi decenti e ragionevolmente sicuri.
Difficoltà che accomunano uomini e donne, ma che per queste ultime presentano il rischio aggiuntivo degli effetti di una possibile maternità, quali il mancato rinnovo di un contratto di lavoro a termine per le lavoratrici dipendenti, o l’essere considerata lavoratrice “a rischio” da un potenziale datore di lavoro perché madre, o ancora di perdere clienti se lavoratrice autonoma. La diffusione di rapporti di lavoro temporanei e precari, particolarmente concentrati tra i giovani in generale e le giovani donne in particolare, ha inoltre ampliato, anche tra le lavoratrici nella economia cosiddetta formale, il numero di quelle che non hanno accesso all’indennità di maternità, o che vi hanno diritto solo in misura irrisoria.

A questi rischi e difficoltà si aggiunge quella della conciliazione tra maternità e lavoro per il mercato, stante una organizzazione del lavoro non sempre amichevole nei confronti di chi ha la responsabilità di bambini piccoli e la scarsità, oltre che il costo, dei servizi per la prima infanzia. Pur tenendo conto dei nidi convenzionati, di quelli privati e delle sezioni primavera nelle scuole per l’infanzia, il livello di copertura arriva al 25 per cento, con grandi differenze tra regioni e tra Centro-Nord e Mezzogiorno. Secondo i dati dell’Ispettorato del lavoro, oltre il 70 per cento di chi lascia volontariamente il lavoro lo fa a causa della difficoltà a conciliarlo con la maternità. I numeri aiutano anche a capire come mai oggi le donne tra i 35 e i 39 anni facciano più spesso figli di quelle tra i 25 e i 29 anni e le ultra-quarantenni ne facciano come le 20-24enni. Man mano che le donne, e ancor più i loro compagni, si stabilizzano nel mercato del lavoro e migliorano il proprio reddito possono affrontare con maggiore serenità i rischi, e i costi, di un figlio o di un figlio in più.

I dati aiutano anche a capire perché, contrariamente a qualche decennio fa, il tasso di fecondità sia un po’ più alto al Nord (1,36) rispetto al Centro (1,25) e al Mezzogiorno (1,26). In parte contribuisce sicuramente la più forte presenza di stranieri nelle regioni settentrionali, dato che la fecondità tra le straniere, ancorché in calo, è più alta (1,89) che tra le autoctone (1,22). Contribuisce tuttavia anche un contesto economico più favorevole, con tassi di occupazione femminile più elevati e un’offerta di servizi comparativamente più generosa.

Necessità di un “family act”

Di fronte a questa situazione, si deve guardare con favore non tanto alla rituale proclamazione della centralità della famiglia da parte del presidente del Consiglio Giuseppe Conte, quanto alla promessa della ministra Elena Bonetti di definire in tempi brevi un family act (al di là dell’inutile inglesismo) comprensivo, entro cui collocare in modo coordinato la riorganizzazione del sistema frammentato dei sostegni economici legati alla presenza di figli, il rafforzamento del sistema dei congedi di maternità e genitoriali (sperabilmente anche alla luce delle condizioni di lavoro e contrattuali non standard di molte lavoratrici e lavoratori), l’ampliamento dell’offerta di servizi socio-educativi di qualità e accessibili.

Giacciono in parlamento diverse proposte di legge che affrontano l’uno o l’altro di questi temi. Sarà opportuno che i vari proponenti e la ministra cooperino per arrivare a un disegno complessivo comune, anche ascoltando le riflessioni e proposte che provengono da soggetti della società civile che su questi temi lavorano da anni e che a loro volta stanno facendo lo sforzo di coordinarsi e cooperare – si veda ad esempio l’Alleanza per l’infanzia – invece di competere per qualche diritto di primogenitura.


Articolo pubblicato lunedì 17 febbraio 2020 su LAVOCE.INFO:
Culle vuote: i dati che ne spiegano le cause.


Un’alleanza per l’infanzia

di Emmanuele Pavolini, Alessandro Rosina, Chiara Saraceno

Le nascite in Italia sono in continua diminuzione e la condizione dell’infanzia è caratterizzata da livelli di diseguaglianza inaccettabili in un paese civile. Come evidenziano Pavolini, Rosina e Saraceno, serve una maggiore consapevolezza culturale dell’importanza di questi temi e un rafforzamento della capacità di sviluppare e mettere in campo politiche pubbliche efficaci, a partire dalla legge di bilancio 2020.

Infanzia e natalità in Italia: un quadro molto preoccupante

Il tema dell’infanzia, del sostegno pubblico alla crescita socio-educativa dei minori e alla natalità, è strategico per lo sviluppo dell’Italia. Un tema ed una sfida trattati più volte negli articoli di questo sito. Purtroppo, l’Italia non sembra essere stata capace fino ad ora di sviluppare politiche pubbliche e interventi collettivi all’altezza.

In Italia nascono pochi bambini e bambine. È un paese che ormai da tempo si sta lentamente spegnendo sotto il profilo della vitalità demografica. Il numero medio di figli per donna è ai livelli più bassi d’Europa (in compagnia della Spagna) e le nascite sono in continua diminuzione (Figura 1). I dati Istat dei primi sei mesi del 2019 indicano inoltre un ulteriore calo rispetto al primo semestre 2018 (208 mila contro 213 mila). L’unico destino che abbiamo è quello di rassegnarci a squilibri crescenti che erodono le basi del futuro comune?

Le cause della denatalità non vanno cercate tanto in un calo del desiderio di avere figli, ma soprattutto nelle difficolta crescenti che incontrano coloro che vorrebbero averne. Molti genitori non ricevono un sostegno adeguato nella responsabilità di crescere un figlio, dal punto di vista economico sia delle necessità di cura ed educative.

Le madri sono spesso penalizzate sul mercato del lavoro. Una donna lavoratrice su cinque lascia il lavoro all’arrivo di un figlio per difficoltà nel conciliare maternità e lavoro. Anche coloro che non lasciano il lavoro pagano una penalità in termini di rallentamento di carriera e di salario, con effetti di medio periodo sul benessere economico familiare e di lungo periodo sul valore della pensione che riceveranno.

Una parte assolutamente non trascurabile di bambini e bambine sperimenta livelli di diseguaglianza e di povertà inaccettabili in un paese civile e democratico. Oltre un minore su dieci in Italia si trova in povertà assoluta.

Benché tutti gli studi mostrino l’importanza, accanto al ruolo cruciale della famiglia, di fare esperienze educative precoci in contesti educativi non solo famigliari, in Italia gli asili nido e, più in generale, i servizi socio-educativi per la prima infanzia hanno ancora livelli di copertura molto bassi (Figura 2) e costi che rischiano di renderli inaccessibili per molte famiglie di ceto medio. Sono inoltre presenti in modo diseguale a livello territoriale, accentuando in molti casi lo svantaggio verso le aree più povere e marginali, rispetto sia alle risorse per la conciliazione, sia alle opportunità educative.

Una “finestra di opportunità” per promuovere politiche per l’infanzia e per la natalità?

Dopo anni in cui le politiche per l’infanzia sono rimaste “quasi congelate”, negli ultimi anni il tema ha cominciato ad entrare nell’agenda politica, dapprima con l’istituzione del fondo per la povertà educativa con la legge finanziaria del 2015, ed ora con l’art. 42 del Disegno di legge di bilancio 2020 e la proposta di legge 687 di Delrio ed altri. Il primo istituisce un fondo unico per le famiglie, accorpando i vari bonus attualmente in vigore e incrementandolo con risorse aggiuntive così a arrivare a 2 miliardi di euro. Il fondo sarebbe destinato da un lato ad un assegno mensile per un anno per i nuovi nati e neo-adottati subordinato a criteri di reddito (il vecchio bonus bebé), dall’altro a costituire una “dote”, sempre subordinata a criteri di reddito, per contribuire al costo del nido per i bambini tra gli 0 e i 3 anni. Il secondo ha l’obiettivo ambizioso di riformare l’intero sistema dei trasferimenti per i figli a favore di un assegno unico per tutti i figli minori ed insieme di introdurre una dote per il pagamento dei servizi educativi e di cura per i bambini.

Gli obiettivi di queste due proposte normative sono condivisibili in linea di massima, ma presentano anche forti debolezze e criticità, come rilevato da più soggetti. Esse sono l’oggetto anche di un documento preparato dalla neo-costituita Alleanza per l’infanzia¹, di cui fanno parte associazioni di diverso tipo oltre ad un gruppo di studiosi, tra cui chi scrive. I punti sollevati sono riconducibili a tre ordini di fattori. Uno è il rischio che il previsto (nel disegno di legge di bilancio) assegno annuale per i neonati si esaurisca in una ennesima misura una tantum, se non inserito da subito in una revisione sistematica e organica dell’insieme dei trasferimenti legati alla presenza di figli minori, così come proposto nel Disegno di legge Delrio ed altri. Un secondo riguarda la dote per il pagamento dei servizi per la primissima infanzia. Esso può costituire un aiuto importante per chi potenzialmente avrebbe accesso ad un nido, ma non può permettersene la retta. Tuttavia non è di nessun aiuto a chi non può neppure prendere in considerazione l’iscrizione al nido semplicemente perché l’offerta è insufficiente o nulla. Si tratta della grande maggioranza dei bambini e delle loro famiglie, oltre il 75% se si tiene conto solo dei nidi pubblici e convenzionati,² poco di meno (fig. 2) se si includono anche quelli totalmente di mercato. Particolarmente scoperte sono le regioni meridionali. Per non creare nuove disuguaglianze, e realizzare quanto stabilito dal DLgs 65/2017 che ha istituito un sistema integrato di educazione e istruzione dalla nascita ai sei anni, occorre aumentare l’offerta di servizi di qualità, pubblici e convenzionati. Una terza questione riguarda i congedi di maternità, paternità e genitoriali. Troppe lavoratrici autonome o precarie sono ancora oggi escluse dal pagamento della indennità di maternità. I congedi genitoriali sono troppo poco indennizzati perché possano essere davvero fruiti e condivisi tra padri e madri. Ovviamente non si possono affrontare tutte insieme e in breve tempo tutte queste questioni. Tuttavia è importante che i passi che si intraprendono non mettano a rischio la coerenza di un disegno riformatore.

Note


¹ Ne fanno parte al momento ACTA, ARCI, Associazione Culturale Pediatri, Centro per la salute del bambino, CGIL,CISL, UIL, Cittadinanza attiva, Gruppo nazionale nidi e infanzia, Legacoopsociali, Save the Children, Sbilanciamoci, Unicef Italia.

² Openpolis, La condizione dei minori in Italia, 2019,


*Articolo pubblicato su Neodemos.info il 19 novembre 2019:
https://www.neodemos.info/articoli/un-alleanza-per-linfanzia/
Pubblicato anche su Lavoce.info