How early inequalities develop, grow and can be effectively tackled
di Giorgio Tamburlini su la Rivista delle Politiche Sociali / Italian Journal of Social Policy, 4/2019
A partire dai risultati di un’indagine promossa da Save the Children (2019), finalizzata a valutare nelle sue varie dimensioni lo sviluppo di bambini di età compresa tra 42 e 54 mesi, vengono discusse le cause e i meccanismi dell’insorgere precoce di diseguaglianze. Sulla base delle evidenze riguardanti le politiche e gli interventi efficaci, vengono poi fornite indicazioni per un adeguato contrasto. Si sottolinea come sia necessaria una combinazione di misure tese a combattere povertà, esclusione sociale e bassa scolarità e di investimenti per promuovere lo sviluppo precoce e sostenere le famiglie nelle loro competenze genitoriali.
ENGLISH – Building on the results of a recent survey (Save the Children, 2019) carried out in Italy and do-cumenting significant inequalities in children aged 42 to 54 months across all dimensions of development, the underlying causes and mechanisms of the early establishment of inequalities are described. Based on the evidence on effective policies and interventions, indications are provided on how to effectively tackle early inequalities. Policies and interventions should ensure a combination of measures to address poverty, unemployment, social exclusion and low literacy, with focused investments to promote early child development and interventions to support and empower families in their parental role.
La piccola ripresa dell’occupazione ha fatto diminuire le famiglie con
persone in età da lavoro nelle quali nessuno è occupato, che però rimangono in
numero consistente. Chiara Saraceno rileva il peggioramento della situazione
nel Mezzogiorno, anche per quanto riguarda le famiglie con più componenti nelle
quali uno solo è occupato. Bassa è, inoltre, la quota delle famiglie con due occupati,
con grandi differenze a seconda della presenza di figli e della età di questi,
con il consueto grave distacco del Mezzogiorno.
L’Indagine sulle Forze di Lavoro è una fonte preziosa per comprendere non solo l’andamento dell’occupazione, della disoccupazione e dell’inattività, ma anche per conoscere la distribuzione di queste condizioni tra le famiglie. L’Istat ha pubblicato alcuni dati sulla situazione occupazionale nelle famiglie che includono almeno un componente tra i 15-64 anni.¹ Non sono di facile lettura, perché manca un quadro completo e i dati vengono forniti per singoli sottocampioni, a volte eterogenei, a volte parzialmente sovrapposti. Sarebbe opportuno, a questo proposito, che l’Istat investisse di più nella chiarezza comunicativa: non per “raccontare storie” e fornire interpretazioni, ma per rendere adeguatamente leggibili i dati che produce.
Un quadro differenziato e
problematico
Al di là delle difficoltà di lettura, la situazione che emerge da questi
dati presenta più di una problematicità, soprattutto per quanto riguarda i
divari non solo tra Centro-Nord e Mezzogiorno, ma anche tra famiglie giovani
con figli e senza figli o tra quelle con figli piccoli e quelle con figli più
grandi.
Dopo il forte aumento, dovuto alla crisi, che aveva fatto crescere la
percentuale di famiglie prive sia di occupati sia di titolari dal 7,2% del 2004
fino all’11,2% del 2013, non vi è stato nessun calo significativo. Anche se
l’Istat ottimisticamente legge così l’11% del 2018. Si tratta di oltre un
milione di famiglie di due o più persone in cui almeno una ha meno di 65 anni e
nessuno è pensionato, ed un altro milione di persone che vivono da sole, di cui
solo una piccola percentuale è inattiva e gode di una pensione. Le altre, o
sono in cerca di lavoro (la maggioranza), o sono inattive prive di pensione
(probabilmente studenti mantenuti fuori casa dai genitori). La vera novità è
che, essendosi ridotta la possibilità di andare in pensione prima dei 65 anni,
si è ridotta la quota di famiglie con componenti in quella fascia di età in cui
c’è almeno una pensione. Erano il 9,9% di tutte le famiglie (inclusi i soli)
nel 2008, il 7,3% nel 2018. Contestualmente sono aumentate le famiglie che
contengono almeno un disoccupato o una “forza lavoro potenziale”.
L’Italia, inoltre, continua ad essere un paese in cui prevalgono le famiglie
monoreddito, anche quando vi sono più persone. Le famiglie con due o più
occupati sono ancora la minoranza, il 44,6% delle famiglie con più componenti,
in calo rispetto al 2004, quando erano il 45, 6%. È la conseguenza soprattutto
del basso tasso di occupazione femminile, ostacolato non solo da una domanda di
lavoro insufficiente, ma anche dalle difficoltà che le donne con carichi
familiari hanno nel conciliare famiglia e lavoro, specie se hanno più figli, in
assenza di servizi adeguati. Le difficoltà aumentano se le donne hanno una
bassa qualifica.
Aumenta il ritardo del Mezzogiorno
La percentuale delle famiglie con persone in età da lavoro con due o più
occupati è del 29,3% nel Mezzogiorno, a fronte del 54,3% nel Nord e del 48,9%
al Centro. Inoltre, mentre in queste aree sono state recuperato le non
esaltanti percentuali pre-crisi, nel Mezzogiorno (dove è più alta anche la
quota di famiglie in cui nessuno è occupato e nessuno titolare di pensione)
queste sono ulteriormente scese di quattro punti. Se si guarda solo allo status
occupazionale delle coppie, le differenze sono vistose. La quota di coppie con
entrambi i partner occupati si attesta al 55,4% al Nord, al 50,6% nel Centro,
mentre nel Mezzogiorno arriva appena al 26,4%.
Infine, mentre nel Nord e Centro la maggioranza delle famiglie con figli ha
due o più occupati (rispettivamente il 65,3% e il 59,9%), nel Mezzogiorno
queste sono solo poco più di un terzo. Alle maggiori difficoltà che incontrano
in quelle regioni le donne con carichi familiari a stare nel mercato del
lavoro, si sommano quelle dei giovani.
Differenze tra coppie e tra uomini
e donne con responsabilità familiari
Per le coppie senza figli conviventi prevale, anche se non è la maggioranza
assoluta (45,9%), il modello in cui entrambi sono occupati a tempo pieno e solo
nel 21% dei casi è occupato solo l’uomo. Nel restante numero di casi vi è una
variegata combinazione di full time/part time, un 4,8% in cui è occupata solo
la donna oltre a un 6,2% in cui nessuno dei due è occupato. Diversa la
situazione delle coppie con figli. Un terzo (34,4%) è caratterizzato dal
modello male breadwinner/female carer: solo l’uomo è occupato e la
donna si occupa del lavoro familiare. Solo nel 28,6% dei casi sono occupati
entrambi full time, mentre nel 19,1% lui è full time e lei è part time. C’è
anche un 4,8% di casi in cui è solo la donna ad essere occupata, part time o
full time (Cfr. fig.1)
Sono soprattutto le coppie più giovani, con figli verosimilmente più
piccoli, a mostrare una maggiore asimmetria di genere nell’occupazione, quindi
un divario maggiore rispetto a quelle senza figli conviventi, con le consuete
differenze tra Centro-Nord e Mezzogiorno. Il divario aumenta all’aumentare del
numero dei figli, a prescindere dall’istruzione della madre, passando dal 32,4%
nelle coppie con un figlio al 26,2% nelle coppie con due figli o più; anche se
le madri con i livelli di istruzione più alti sono quelle che, anche se con
figli piccoli, hanno i tassi di occupazione più elevati.
Questi dati confermano quanto sia difficile per le donne conciliare
maternità e occupazione in un contesto poco amichevole sia sul versante
dell’occupazione sia su quello delle politiche e che non facilita, tantomeno
incoraggia, una diversa divisione del lavoro e delle responsabilità tra padri e
madri. Se occorre tenersi stretto l’unico reddito che entra in famiglia, non è
possibile negoziare troppo su orari e condizioni di lavoro e neppure sulla
divisione del lavoro domestico. Se poi si è l’unico genitore presente, che deve
tenere insieme bisogni di cura e bisogni di reddito, le cose diventano ancora
più difficili.
Famiglie mono-reddito più a
rischio di essere famiglie di lavoratori povere
Questi dati aiutano anche a comprendere perché l’Italia sia uno dei paesi UE
in cui è forte, ed è aumentata negli anni della crisi, l’incidenza di famiglie
che sono povere pur avendo un componente che lavora. La povertà italiana,
infatti, non solo è fortemente concentrata nel Mezzogiorno, dove è alta
l’incidenza sia delle famiglie senza redditi da lavoro sia di famiglie
monoreddito, ma è un fenomeno diffuso anche tra le famiglie di lavoratori. Nel
2017 si trovava in povertà assoluta il 12% circa delle famiglie con persona di
riferimento operaio o assimilato, rispetto all’1,6% del 2008. L’aumento è stato
notevole anche per le famiglie con persona di riferimento impiegata, che ora
toccano il 6,6% rispetto all’1,1% del 2008 e in minor misura per quelle di
lavoratori autonomi, passate dal 2,1 % al 4,5%.² Part time involontario,
riduzione degli orari di lavoro, contratti a termine, oltre a salari spesso
molto bassi, fanno sì che il lavoro non sempre riesca a proteggere dalla
povertà, specie se è uno solo in famiglia ad averlo. Eppure queste condizioni sono
in aumento, non solo tra i migranti, che costituiscono una grossa fetta di
lavoratori, e famiglie, monoreddito poveri.
Note
¹ ISTAT, Famiglie e mercato del lavoro. Anno 2018, Statistiche
Report, 6 Giugno 2018
Negli interventi, assolutamente necessari, e con ricadute importanti sia per lo sviluppo precoce dei bambini che per l’occupazione femminile, a supporto dell’accesso a servizi per l’infanzia, occorre porre molta attenzione a non mettere sullo stesso piano servizi di significato e valore molto diverso. Da una parte infatti vi sono servizi quali i nidi e servizi integrativi che si propongono un fine educativo, dall’altra servizi che si propongono un intento prevalente o esclusivo di “facilitazione logistica” per i genitori, quali baby parking e altre tipologie caratterizzate dall’assenza di coinvolgimento delle famiglie e scarsa o nessuna trasmissione di competenze da parte degli operatori ai genitori. Una cospicua e crescente mole di studi, effettuati sia in campo internazionale che in Italia, documenta i benefici, in particolare per bambini di famiglie di medio-basso livello socio-economico e culturale, della frequenza di nidi di qualità.
L’accesso a questi servizi, che nella loro grande maggioranza si fondano su solide basi pedagogiche, con diverse esperienze italiane che costituiscono riferimento di eccellenza in tutto il mondo, consente ai bambini di usufruire di opportunità di sviluppo sul piano cognitivo, socio-relazionale e dell’autonomia che le famiglie, o per lo meno la grande maggioranza di queste, non sono in grado di offrire. Va quindi fortemente supportato dalle politiche pubbliche, sia abbassando la soglia di accessibilità economica, sia soprattutto aumentando l’offerta, che in buona parte d’Italia è ancora del tutto insufficiente, sia ancora creando consapevolezza nelle famiglie e nelle comunità che inviare i propri bimbi al nido rappresenta un grande investimento per il futuro, sia immediato che a lungo termine, a prevenzione della dispersione scolastica e di altri esiti sfavorevoli. Con un ritorno dell’investimento pari a moIte volte il costo sostenuto inizialmente. Inoltre, quando i genitori sono coinvolti, anche per breve tempo, nelle attività educative (lettura, gioco, musica e movimento, piccolo giardinaggio, cura ambientale, ecc.) possono coglierne l’importanza e la fattibilità a casa, osservare il piacere che i bambini (e loro stessi) ne ricavano, e motivarsi quindi a utilizzare il tempo a disposizione con i propri figli in attività costruttive del loro sviluppo.
Una recentissima indagine (2019) effettuata da Save the Children su un campione di bimbi di 3,5-4 anni, residenti in varie città italiane, da Nord a Sud, ha dimostrato che a questa età i bambini hanno competenze (cognitive, motorie, sociali) che sono già diverse, in rapporto non solo al background dei genitori, ma alla frequenza al nido negli anni precedenti e, ancora, alle attività svolte in famiglia, quali la lettura condivisa. Coniugare il supporto economico alle famiglie con bambini che ne hanno bisogno alla maggior fruizione di servizi e proposte educative di qualità è una scommessa da vincere per qualsiasi governo che abbia a cuore equità e sviluppo.