Se la nuova scuola resta impreparata

di Chiara Saraceno

7 settembre 2021

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La scuola è davvero preparata a riaccogliere docenti, studenti, personale tecnico, ad affrontare per il terzo anno le esigenze, e le incognite, di una pandemia ancora non vinta e le aspettative e i bisogni di studenti che vengono da due anni in cui hanno fatto scuola spesso in modo irregolare e discontinuo, comunque in molti casi per lo più a distanza?

È lecito avere qualche dubbio. Tutta l’attenzione si è concentrata sulle, importantissime, vaccinazioni, lasciando ai margini tutto il resto. Non risulta che si siano attrezzate aule a sufficienza, e aumentato proporzionalmente l’organico per tutto l’anno scolastico, per ridurre il numero di allievi per classe e garantire il distanziamento necessario, né che si sia provveduto a introdurre in modo sistematico sistemi di areazione meno primitivi della finestra aperta. Anzi, il comitato tecnico-scientifico, dando per scontato che le cose stiano così, ha ridotto la distanza minima necessaria contando su mascherine e ricambio frequente d’aria. Quanto ai trasporti, l’introduzione di un controllore di mascherine e numero massimo di passeggeri, può servire a chi riesce a salire su un autobus, tram o treno, ma non a chi rimane a terra perché non ci sono abbastanza mezzi. Si ha la sensazione che sul piano logistico l’attenzione fosse maggiore, anche se non sufficiente, lo scorso anno.

Ma il silenzio e la disattenzione non riguardano solo le questioni logistiche. Riguardano anche il tipo di scuola, i modelli di didattica e apprendimento con cui ci si avvia al nuovo anno scolastico. Qui sembra che nulla sia avvenuto, che questi due anni siano semplicemente da lasciare alle spalle, ricominciando da dove, un anno e mezzo fa, la pandemia ha imposto una frattura. Come se gli studenti che in questi giorni entrano nelle aule non avessero nel loro bagaglio di esperienza quanto è avvenuto, a scuola ma non solo. E come se, quanto di positivo e negativo sul modo di fare didattica e favorire gli apprendimenti non fosse rilevante ai fini del modo di fare scuola “normale”.

Gli studenti e le studentesse che in questi giorni iniziano il primo anno della scuola secondaria di secondo grado, ad esempio, vengono da due anni in cui sono stati pochissimo in aula. Quindi non hanno maturato, non solo i ritmi della scuola in presenza, ma anche le modalità di interazione tra pari e con gli/le insegnanti propri delle relazioni faccia a faccia in contesti formali e di negoziazione dei confini e distinzioni tra scuola e casa.

Comunque tutti/e, specie nella scuola secondaria di primo e secondo grado, hanno sperimentato modalità di studio e apprendimento in parte differenti. E molti hanno accumulato deficit di apprendimento e prima ancora di capacità e motivazione ad apprendere in una misura tale da far parlare di “dispersione implicita”, che si aggiunge a quella, già elevatissima in Italia, esplicita.
Si tratta, infatti, di studenti e studentesse che non hanno formalmente abbandonato la scuola, ma in qualche modo si sono “scollegati”, perché i loro apprendimenti non consentono loro di stare al passo, innescando un circolo vizioso di perdita di motivazione e interesse. Le attività di recupero svolte all’inizio dell’estate o nelle settimane precedenti l’inizio della scuola non sono certo sufficienti a rivitalizzare, o suscitare, motivazioni e curiosità.

Nei mesi scorsi si era fatto un gran parlare – anche da parte di associazioni di vario tipo che lavorano sul territorio, incluse quelle raccolte nella sovra-rete EducAzioni – della necessità di usare la terribile esperienza della pandemia per ripensare il sistema scuola – dall’edilizia, al rapporto con il territorio, alle modalità didattiche – per renderlo più adeguato alla sua missione di sviluppo delle capacità dei più giovani e di contrasto alle disuguaglianze nelle opportunità di crescita. Sono sicura che chi fa parte di queste associazioni e molti insegnanti sono impegnati, là dove operano, perché questa possibilità non si chiuda. Ma è disperante che tutto il dibattito sulla scuola negli ultimi mesi si sia ridotto al dibattito sulla obbligatorietà o meno dei vaccini per il personale scolastico.

Afghanistan, i bambini soli di Kabul

Nel Paese 10 milioni di minorenni hanno bisogno di aiuti

di Chiara Saraceno

La Repubblica, 19 agosto 2021

Le immagini che mostrano folle, in stragrande maggioranza di uomini, che tentano la fuga dall’Afghanistan sembrano confermare indirettamente che poco o nulla era cambiato in quel Paese nei rapporti tra uomini e donne e tra le generazioni, ma anche tra città e zone rurali, nei vent’anni di occupazione da parte delle truppe Nato. Nella maggior parte del Paese e dei gruppi sociali vigeva la legge islamica, le adultere venivano ancora arrestate, fustigate e lapidate, i matrimoni forzati delle bambine continuavano a essere la norma. Quasi quattro milioni di bambine e bambini non andavano a scuola e le violenze contro i minori erano diffuse, così come i reclutamenti forzati per farne dei soldati.

Secondo l’Unicef, l’Afghanistan è da molti anni uno dei posti peggiori sulla terra dove essere un bambino o una bambina. A ciò si aggiunga, negli ultimi due anni, la siccità e le conseguenze del Covid 19, che hanno avuto un impatto devastante sulle stesse chance di sopravvivenza della popolazione più povera, lontana dall’occhio dei media nazionali e internazionali, e ancor più tra i bambini in essa. Come segnala anche Save the Children, la situazione umanitaria per i bambini in Afghanistan era già disastrosa. L’accelerazione del conflitto armato e gli sfollamenti di massa hanno peggiorato una situazione già grave.

Nelle parole del capo delle operazioni sul campo e dell’emergenza dell’Unicef, Mustapha Ben Messaoud: “Ogni singolo giorno che passa, l’acutizzarsi del conflitto in Afghanistan impone un tributo maggiore alle donne e ai bambini del Paese. Infatti, dall’inizio dell’anno, più di 550 bambini sono stati uccisi, 1400 feriti. Tragicamente, come ha chiarito il quinto rapporto del Segretario Generale dell’Onu sui bambini e il conflitto armato in Afghanistan – le perdite di minori nella prima metà di quest’anno hanno costituito il più alto numero di bambini uccisi e mutilati da quando i casi vengono registrati dalle Nazioni Unite”.

Si prevede che, senza un’azione urgente, 1 milione di bambini sotto i 5 anni saranno gravemente malnutriti entro la fine del 2021, e 3 milioni soffriranno di malnutrizione acuta moderata. Molti di loro vivono nei campi dove si raccolgono gli sfollati, che spesso mancano di beni essenziali, a partire dall’acqua. Altri vivono per strada, con o senza adulti.

Unicef stima che dei 18 milioni (la metà circa della popolazione afghana) che ha bisogno di assistenza umanitaria, 10 milioni siano minorenni. È altamente improbabile che queste bambine e bambini, e le loro mamme, possano anche solo pensare di raggiungere un aeroporto dove lottare per un passaggio fuori dal Paese, abbiano “titolo” per essere considerati meritevoli di protezione internazionale, a causa della collaborazione con i paesi Nato occupanti, per entrare in un qualche corridoio umanitario che li trasporti in luoghi più sicuri. Difficilmente, ora come ieri, suscitano l’attenzione solidale riservata a chi sta per perdere, o ha già perso, ciò che credeva di aver conquistato e comunque faceva parte della piccola quota dei “visibili” allo sguardo occidentale.

È sicuramente importante e doveroso che vengano aperti corridoi umanitari per le donne e i bambini che vogliono, o devono, fuggire dal Paese. Lo chiedono molte associazioni della società civile, impegnandosi anche a mettere a disposizione risorse e competenze per favorire l’accoglienza di chi arriverà. Ma occorre pensare a chi invece rimane, soprattutto ai più piccoli, per motivi di umana decenza, innanzitutto, ma anche per evitare, come non si è fatto abbastanza in questi vent’anni, di lasciare nella invisibilità una parte numericamente così ampia della generazione più giovane, rendendola facile preda, se riesce a sopravvivere, di ogni potere violento.

Per questo Unicef e Save the Children chiedono di poter continuare a svolgere il loro lavoro in quel Paese, in condizioni di sicurezza.

Se anche Azzolina ripudia la sua Dad

di Chiara Saraceno

13 gennaio 2021, La Stampa

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«La Dad non funziona più». «Oggi è difficile per gli studenti capire perché non si riapre: hanno ragione, capisco le loro frustrazioni e le loro difficoltà. La scuola è un diritto costituzionale, se a me l’avessero tolta probabilmente non sarei qui». A formulare questi giudizi non sono i ragazzi, o i loro genitori e neppure gli insegnanti, ma la ministra dell’Istruzione. Per quanto si possa essere d’accordo nel merito, si tratta di una affermazione devastante se fatta da chi ha la responsabilità di far funzionare la scuola e di garantire il diritto costituzionale all’istruzione a tutti, in condizioni di parità, a prescindere dalle condizioni personali e familiari. Lungi dall’essere, come era nelle intenzioni, una manifestazione di solidarietà con gli studenti e le studentesse, è una dichiarazione di impotenza che lascia scoraggiati e senza interlocutore.

Nel conflitto tra ministra e presidenti di Regione si è raggiunto il punto forse più drammatico di una governance impazzita, in cui a perdere sono i cittadini, in questo caso in primis gli studenti, ma anche la ministra, la sua autorevolezza, credibilità, quindi in ultima istanza legittimità. Perché il governo della scuola spetta a lei. A lei spetta trovare accordi tra tutti i soggetti coinvolti direttamente e indirettamente nella scuola, ricostruendo la filiera delle dimensioni necessarie non solo a farla funzionare, ma a renderla accessibile. Una ricostruzione che era già mancata nella preparazione della riapertura a settembre, quando ci si era concentrati su spazi e banchi, ma si era ignorata la questione dei trasporti. E di nuovo ora, quando si erano immaginati, in contrasto con il parere dei presidi, slittamenti orari e turnazioni che avrebbero richiesto una radicale riorganizzazione della didattica, più insegnanti, oltre che della vita quotidiana delle studentesse e degli studenti. Certo le responsabilità di queste mancanze, di questi fallimenti, al netto dell’andamento pandemico, sono distribuite su più soggetti, non sono solo dalla ministra. Ma in ultima istanza è lei che deve risponderne, perché è lei la garante del diritto costituzionale all’istruzione, che è stato troppo a lungo trascurato in questo lungo anno, anche da lei.

La ministra ha dichiarato anche di essere preoccupata «per il deflagrare della dispersione scolastica». Fa bene ad esserlo. Perché la Dad non ha lo stesso impatto negativo su tutti i ragazzi e ragazze. Certo, sta deprivando tutti gli adolescenti del normale scambio e confronto che può avvenire solo nella quotidianità di relazioni faccia a faccia. Impone a tutti una dose di affaticamento aggiuntiva nel processo di apprendimento, tanto più, come succede troppo spesso, gli insegnanti non sono in grado di adattare il loro stile didattico non solo allo strumento digitale, ma al contesto di relazioni, di classi, solo virtuali. Ma per le e gli adolescenti più fragili, o in condizioni materiali disagiate quando non difficili, la Dad ha costituito e costituisce un aggravamento inaccettabile, per le cause note e già più volte discusse, anche su questo giornale. Non risulta tuttavia che dal ministero siano state promosse azioni sistematiche per contrastare i danni che si stavano provocando, al di là del finanziamento per qualche strumento informatico da dare in comodato. Non è stato fatto questa estate e neppure alla ripresa delle lezioni a settembre. I corsi di “riallineamento” sono stati per lo più lasciati da parte ben presto in ogni ordine di scuola, tra mancanza di insegnanti (che continua a permanere, con molte classi che tutt’oggi non hanno insegnanti in materie fondamentali) e interruzioni dovute all’esposizione al contagio. Nella secondaria superiore sono stati cancellati dalla messa in Dad totale a poche settimane dall’inizio delle lezioni, senza che si sia pensato di promuovere in modo sistematico forme di tutoraggio, costituzione di piccoli gruppi di prossimità, magari in spazi con connessioni internet stabili, per sostenere i ragazzi/e più fragili o con maggiori difficoltà, coinvolgendo l’università, le associazioni civiche e di terzo settore. Non vi è neppure un vero monitoraggio delle perdite di apprendimento e degli abbandoni, così come della qualità della didattica a distanza. Certo, non tutto dipende dalla ministra e dal ministero, molto può e deve essere fatto a livello delle singole scuole. Ma, di nuovo, dichiararsi preoccupata senza fare nulla è una dichiarazione di impotenza che un ministro non può permettersi senza delegittimarsi.

Didattica arte ragazze che dipingono

La mia lezione dedicata ai Sì-Dad

Risposta a Paola Mastrocola

di Chiara Saraceno

La Stampa, 7 dicembre 2020.

La didattica a distanza come opportunità di ripensare insieme la didattica e l’uso del tempo? È il suggerimento di Paola Mastrocola su La Stampa di ieri (6 dicembre), che invita a non chiudersi – studenti, insegnanti, genitori – nella sola lamentazione per cogliere le opportunità, nelle limitazioni del presente ma anche in un futuro prossimo più libero da vincoli, offerte dal digitale.
Non è la prima a farlo. Fin dal lunghissimo lock down di questa primavera molti – anche se forse non la maggioranza – degli insegnanti si erano resi conto che la didattica a distanza non poteva essere la pura ripetizione di quella in presenza, che per altro spesso è lungi dall’essere soddisfacente.
E molti pedagogisti e osservatori vari si erano spinti ad auspicare che il ritorno in classe sarebbe stato accompagnato da una forte revisione delle modalità didattiche: meno frontali e unidirezionali, più partecipative e responsabilizzanti gli studenti non solo nell’eseguire i compiti, ma nel fare ricerche, lavori di gruppo, esplorazioni sul mondo circostante.

Modalità didattiche messe in pratica da tempo da diversi insegnanti, promosse da decenni da associazioni e movimenti come il Movimento di cooperazione educativa, La scuola senza zaino, Saltamuri e altri, tra i più vocali a chiedere il ritorno alla scuola in presenza, ma anche i più attivi nel dare senso e contenuto alla Dad, oltre a coglierne le difficoltà per gli studenti più svantaggiati. Eppure, nonostante una antica e nobile tradizione aperta a innovarsi per far fronte al cambiamento sociale e tecnologico, faticano a diventare prassi normale nelle scuole, a ispirare modalità strutturali di formazione degli insegnanti, programmi ministeriali per la normalità e per l’emergenza. Anzi, sia la Dad che la scuola in presenza, nella situazione di incertezza attuale, in cui interruzioni più o meno temporanee e frequenti sono una possibilità non remota, rischiano di sollecitare gli insegnanti (e anche i genitori a chiedere loro che lo facciano) a “correre” per finire il programma, sacrificando tutto il resto: non solo le gite, le visite ai musei , le esplorazioni del territorio circostante la scuola, gli interventi di persone esterne – ovvero tutte le attività che anche nella scuola più tradizionale e frontale spezzano il ritmo, introducono nuove prospettive – ma anche le attività più libere, che sollecitano la creatività e l’iniziativa degli studenti.
Sembra che il motto sia che “non bisogna perdere tempo”, che occorre “dedicarsi ai fondamentali”. Si, ma come? Siamo sicuri che la lezione frontale seguita dalla lettura del libro di testo e dall’esecuzione dei compiti connessi sia l’unico o il migliore dei modi? Molti pedagogisti lo negano (si pensi ad esempio a ciò che scriveva De Mauro sull’insegnamento dell’italiano). La Dad da questo punto di vista può essere una opportunità, non in sé, ma in quanto, costringendo all’uso del digitale, rende visibile in modo generalizzato la possibilità di accedere a fonti di conoscenza, strumenti, variegati e ricchissimi, da usare per costruire il proprio palinsesto didattico (digitale e non), e attraverso cui guidare gli studenti perché imparino a distinguere tra tipi e validità delle informazioni e così via. Ma per fare questo occorre una concezione di sé come insegnante e dell’insegnamento non come fonte/trasmettitore monocratico e autarchico (con il libro di testo) di una conoscenza di cui vengono sottratte alla vista e alla consapevolezza degli studenti i percorsi e le varietà degli approcci e dei punti di vista, ma come insieme mediatore di fonti e soggetti diversi di conoscenze e sollecitatore di curiosità e interessi. Un ruolo cruciale, che richiede una capacità, e disponibilità, all’innovazione, a mettersi in gioco, a cooperare con altri e ad accettare la sfida della partecipazione attiva degli studenti. Una concezione dell’insegnamento e dell’apprendimento che, si badi bene, pre-data l’arrivo del digitale. La scuola italiana è piena di insegnanti così e sono fortunati gli studenti che li incontrano. Ma troppo spesso sono percepiti come una eccezione, talvolta anche fastidiosa, quando non rischiosa per i loro studenti, perché “non seguono il programma”. Non, almeno, nelle modalità codificate.

Covid, le conseguenze dello studio a distanza: la scuola digitale frena la crescita

di Chiara Saraceno

Articolo pubblicato su La Stampa di Torino
Sabato 07 Novembre 2020

La situazione della pandemia è sicuramente grave e richiede responsabilità e sacrifici a tutti.

Purtroppo anche ai più piccoli e giovani. Ma occorre valutare bene quali sacrifici richiedere e quali costi comportano per i soggetti coinvolti. Giovedì il comitato tecnico scientifico ha ufficialmente riconosciuto i costi della didattica a distanza per le bambine/i e adolescenti. Costi sul piano dell’apprendimento, ma anche del benessere piscologico e della fiducia, tanto più intensi e con effetti di medio-lungo periodo per coloro che erano già in condizioni di svantaggio. Meglio tardi che mai, verrebbe da dire, visto che da mesi almeno una parte dei pediatri, degli psicologi dell’età evolutiva, degli insegnanti, dell’associazionismo, denunciano quella che qualcuno ha chiamato una pandemia educativa. Ma decisamente troppo tardi.

Come era tristemente facile prevedere, la chiusura delle scuole e la reclusione degli studenti nelle loro camerette appare uno strumento troppo attraente per rinunciarvi, più semplice e a costo zero per le finanze pubbliche che chiudere i centri commerciali, le sale bingo e per le scommesse, le palestre.

Ci si è scandalizzati della giustificazione – “improduttivi” – addotta da chi vorrebbe isolare in casa i grandi anziani. Ma ci si dovrebbe scandalizzare altrettanto, se non di più, della sistematica sottovalutazione del costo sopportato dai più giovani, della gravità delle enormi restrizioni non tanto o solo alla loro libertà, ma alle loro opportunità di crescita, cui sono sottoposti dalla primavera scorsa: la scuola in presenza, innanzitutto, ma anche la possibilità di fare sport, di svolgere attività organizzate di tempo libero, che pure sappiamo essere importanti per una buona crescita. Costi che non hanno trovato nessuna compensazione. Non mi riferisco, ovviamente, a qualche indennizzo economico. Anche se sicuramente i più svantaggiati rischiano di accrescere le difficoltà che incontreranno nel mercato del lavoro: per l’insufficienza delle competenze acquisite, per l’abbandono precoce del percorso formativo a causa del venir meno della motivazione necessaria e di un ambiente che la sostenga. Mi riferisco a quanto si sarebbe dovuto fare e non si è fatto questa estate, salvo che da parte dell’associazionismo, per recuperare quanto si era perso. Al fatto che, programmando una didattica integrata in parte a distanza in parte in presenza per le superiori (prima della ripresa della pandemia) non ci si è posti né il problema della necessità di innovare la didattica stessa, né di approntare le forme di consulenza e sostegno necessarie per quei ragazzi che non hanno gli strumenti materiali o l’ambiente adatto. Un problema diventato macroscopico con il passaggio al 100 per cento di didattica a distanza che ora, nelle zone rosse, coinvolge anche i ragazzini più piccoli. Solo due settimane fa sono stati stanziati fondi per colmare il divario digitale che tuttora persiste nelle scuole. Anche nella scuola primaria, che per ora rimane teoricamente in presenza, la possibile e ricorrente messa in quarantena di singole classi o di interi plessi non trova una organizzazione preparata a riorientarsi tempestivamente. E si è continuato a far finta di ignorare che non tutti a casa hanno luoghi adatti allo studio, persone che possono dare una mano. Sarebbe necessario mettere a disposizione, anche in collaborazione con l’associazionismo, forme di appoggio a distanza e luoghi sicuri di prossimità, dove i ragazzi/e in piccoli gruppi possano trovare gli strumenti, l’ambiente, le relazioni necessarie ad accompagnarli in questi tempi difficili, a sostenerne la fiducia. Invece, quando si tratta di scuola, e dei più giovani, tutto è sempre all’insegna dell’emergenza e dell’improvvisazione. Alla fine, la delega è sempre alle famiglie (e alle loro disuguali risorse) e alla buona volontà dei singoli. —