Risposta a Paola Mastrocola
di Chiara Saraceno
La didattica a distanza come opportunità di ripensare insieme la didattica e l’uso del tempo? È il suggerimento di Paola Mastrocola su La Stampa di ieri (6 dicembre), che invita a non chiudersi – studenti, insegnanti, genitori – nella sola lamentazione per cogliere le opportunità, nelle limitazioni del presente ma anche in un futuro prossimo più libero da vincoli, offerte dal digitale.
Non è la prima a farlo. Fin dal lunghissimo lock down di questa primavera molti – anche se forse non la maggioranza – degli insegnanti si erano resi conto che la didattica a distanza non poteva essere la pura ripetizione di quella in presenza, che per altro spesso è lungi dall’essere soddisfacente.
E molti pedagogisti e osservatori vari si erano spinti ad auspicare che il ritorno in classe sarebbe stato accompagnato da una forte revisione delle modalità didattiche: meno frontali e unidirezionali, più partecipative e responsabilizzanti gli studenti non solo nell’eseguire i compiti, ma nel fare ricerche, lavori di gruppo, esplorazioni sul mondo circostante.
Modalità didattiche messe in pratica da tempo da diversi insegnanti, promosse da decenni da associazioni e movimenti come il Movimento di cooperazione educativa, La scuola senza zaino, Saltamuri e altri, tra i più vocali a chiedere il ritorno alla scuola in presenza, ma anche i più attivi nel dare senso e contenuto alla Dad, oltre a coglierne le difficoltà per gli studenti più svantaggiati. Eppure, nonostante una antica e nobile tradizione aperta a innovarsi per far fronte al cambiamento sociale e tecnologico, faticano a diventare prassi normale nelle scuole, a ispirare modalità strutturali di formazione degli insegnanti, programmi ministeriali per la normalità e per l’emergenza. Anzi, sia la Dad che la scuola in presenza, nella situazione di incertezza attuale, in cui interruzioni più o meno temporanee e frequenti sono una possibilità non remota, rischiano di sollecitare gli insegnanti (e anche i genitori a chiedere loro che lo facciano) a “correre” per finire il programma, sacrificando tutto il resto: non solo le gite, le visite ai musei , le esplorazioni del territorio circostante la scuola, gli interventi di persone esterne – ovvero tutte le attività che anche nella scuola più tradizionale e frontale spezzano il ritmo, introducono nuove prospettive – ma anche le attività più libere, che sollecitano la creatività e l’iniziativa degli studenti.
Sembra che il motto sia che “non bisogna perdere tempo”, che occorre “dedicarsi ai fondamentali”. Si, ma come? Siamo sicuri che la lezione frontale seguita dalla lettura del libro di testo e dall’esecuzione dei compiti connessi sia l’unico o il migliore dei modi? Molti pedagogisti lo negano (si pensi ad esempio a ciò che scriveva De Mauro sull’insegnamento dell’italiano). La Dad da questo punto di vista può essere una opportunità, non in sé, ma in quanto, costringendo all’uso del digitale, rende visibile in modo generalizzato la possibilità di accedere a fonti di conoscenza, strumenti, variegati e ricchissimi, da usare per costruire il proprio palinsesto didattico (digitale e non), e attraverso cui guidare gli studenti perché imparino a distinguere tra tipi e validità delle informazioni e così via. Ma per fare questo occorre una concezione di sé come insegnante e dell’insegnamento non come fonte/trasmettitore monocratico e autarchico (con il libro di testo) di una conoscenza di cui vengono sottratte alla vista e alla consapevolezza degli studenti i percorsi e le varietà degli approcci e dei punti di vista, ma come insieme mediatore di fonti e soggetti diversi di conoscenze e sollecitatore di curiosità e interessi. Un ruolo cruciale, che richiede una capacità, e disponibilità, all’innovazione, a mettersi in gioco, a cooperare con altri e ad accettare la sfida della partecipazione attiva degli studenti. Una concezione dell’insegnamento e dell’apprendimento che, si badi bene, pre-data l’arrivo del digitale. La scuola italiana è piena di insegnanti così e sono fortunati gli studenti che li incontrano. Ma troppo spesso sono percepiti come una eccezione, talvolta anche fastidiosa, quando non rischiosa per i loro studenti, perché “non seguono il programma”. Non, almeno, nelle modalità codificate.