Didattica arte ragazze che dipingono

La mia lezione dedicata ai Sì-Dad

Risposta a Paola Mastrocola

di Chiara Saraceno

La Stampa, 7 dicembre 2020.

La didattica a distanza come opportunità di ripensare insieme la didattica e l’uso del tempo? È il suggerimento di Paola Mastrocola su La Stampa di ieri (6 dicembre), che invita a non chiudersi – studenti, insegnanti, genitori – nella sola lamentazione per cogliere le opportunità, nelle limitazioni del presente ma anche in un futuro prossimo più libero da vincoli, offerte dal digitale.
Non è la prima a farlo. Fin dal lunghissimo lock down di questa primavera molti – anche se forse non la maggioranza – degli insegnanti si erano resi conto che la didattica a distanza non poteva essere la pura ripetizione di quella in presenza, che per altro spesso è lungi dall’essere soddisfacente.
E molti pedagogisti e osservatori vari si erano spinti ad auspicare che il ritorno in classe sarebbe stato accompagnato da una forte revisione delle modalità didattiche: meno frontali e unidirezionali, più partecipative e responsabilizzanti gli studenti non solo nell’eseguire i compiti, ma nel fare ricerche, lavori di gruppo, esplorazioni sul mondo circostante.

Modalità didattiche messe in pratica da tempo da diversi insegnanti, promosse da decenni da associazioni e movimenti come il Movimento di cooperazione educativa, La scuola senza zaino, Saltamuri e altri, tra i più vocali a chiedere il ritorno alla scuola in presenza, ma anche i più attivi nel dare senso e contenuto alla Dad, oltre a coglierne le difficoltà per gli studenti più svantaggiati. Eppure, nonostante una antica e nobile tradizione aperta a innovarsi per far fronte al cambiamento sociale e tecnologico, faticano a diventare prassi normale nelle scuole, a ispirare modalità strutturali di formazione degli insegnanti, programmi ministeriali per la normalità e per l’emergenza. Anzi, sia la Dad che la scuola in presenza, nella situazione di incertezza attuale, in cui interruzioni più o meno temporanee e frequenti sono una possibilità non remota, rischiano di sollecitare gli insegnanti (e anche i genitori a chiedere loro che lo facciano) a “correre” per finire il programma, sacrificando tutto il resto: non solo le gite, le visite ai musei , le esplorazioni del territorio circostante la scuola, gli interventi di persone esterne – ovvero tutte le attività che anche nella scuola più tradizionale e frontale spezzano il ritmo, introducono nuove prospettive – ma anche le attività più libere, che sollecitano la creatività e l’iniziativa degli studenti.
Sembra che il motto sia che “non bisogna perdere tempo”, che occorre “dedicarsi ai fondamentali”. Si, ma come? Siamo sicuri che la lezione frontale seguita dalla lettura del libro di testo e dall’esecuzione dei compiti connessi sia l’unico o il migliore dei modi? Molti pedagogisti lo negano (si pensi ad esempio a ciò che scriveva De Mauro sull’insegnamento dell’italiano). La Dad da questo punto di vista può essere una opportunità, non in sé, ma in quanto, costringendo all’uso del digitale, rende visibile in modo generalizzato la possibilità di accedere a fonti di conoscenza, strumenti, variegati e ricchissimi, da usare per costruire il proprio palinsesto didattico (digitale e non), e attraverso cui guidare gli studenti perché imparino a distinguere tra tipi e validità delle informazioni e così via. Ma per fare questo occorre una concezione di sé come insegnante e dell’insegnamento non come fonte/trasmettitore monocratico e autarchico (con il libro di testo) di una conoscenza di cui vengono sottratte alla vista e alla consapevolezza degli studenti i percorsi e le varietà degli approcci e dei punti di vista, ma come insieme mediatore di fonti e soggetti diversi di conoscenze e sollecitatore di curiosità e interessi. Un ruolo cruciale, che richiede una capacità, e disponibilità, all’innovazione, a mettersi in gioco, a cooperare con altri e ad accettare la sfida della partecipazione attiva degli studenti. Una concezione dell’insegnamento e dell’apprendimento che, si badi bene, pre-data l’arrivo del digitale. La scuola italiana è piena di insegnanti così e sono fortunati gli studenti che li incontrano. Ma troppo spesso sono percepiti come una eccezione, talvolta anche fastidiosa, quando non rischiosa per i loro studenti, perché “non seguono il programma”. Non, almeno, nelle modalità codificate.

Covid, le conseguenze dello studio a distanza: la scuola digitale frena la crescita

di Chiara Saraceno

Articolo pubblicato su La Stampa di Torino
Sabato 07 Novembre 2020

La situazione della pandemia è sicuramente grave e richiede responsabilità e sacrifici a tutti.

Purtroppo anche ai più piccoli e giovani. Ma occorre valutare bene quali sacrifici richiedere e quali costi comportano per i soggetti coinvolti. Giovedì il comitato tecnico scientifico ha ufficialmente riconosciuto i costi della didattica a distanza per le bambine/i e adolescenti. Costi sul piano dell’apprendimento, ma anche del benessere piscologico e della fiducia, tanto più intensi e con effetti di medio-lungo periodo per coloro che erano già in condizioni di svantaggio. Meglio tardi che mai, verrebbe da dire, visto che da mesi almeno una parte dei pediatri, degli psicologi dell’età evolutiva, degli insegnanti, dell’associazionismo, denunciano quella che qualcuno ha chiamato una pandemia educativa. Ma decisamente troppo tardi.

Come era tristemente facile prevedere, la chiusura delle scuole e la reclusione degli studenti nelle loro camerette appare uno strumento troppo attraente per rinunciarvi, più semplice e a costo zero per le finanze pubbliche che chiudere i centri commerciali, le sale bingo e per le scommesse, le palestre.

Ci si è scandalizzati della giustificazione – “improduttivi” – addotta da chi vorrebbe isolare in casa i grandi anziani. Ma ci si dovrebbe scandalizzare altrettanto, se non di più, della sistematica sottovalutazione del costo sopportato dai più giovani, della gravità delle enormi restrizioni non tanto o solo alla loro libertà, ma alle loro opportunità di crescita, cui sono sottoposti dalla primavera scorsa: la scuola in presenza, innanzitutto, ma anche la possibilità di fare sport, di svolgere attività organizzate di tempo libero, che pure sappiamo essere importanti per una buona crescita. Costi che non hanno trovato nessuna compensazione. Non mi riferisco, ovviamente, a qualche indennizzo economico. Anche se sicuramente i più svantaggiati rischiano di accrescere le difficoltà che incontreranno nel mercato del lavoro: per l’insufficienza delle competenze acquisite, per l’abbandono precoce del percorso formativo a causa del venir meno della motivazione necessaria e di un ambiente che la sostenga. Mi riferisco a quanto si sarebbe dovuto fare e non si è fatto questa estate, salvo che da parte dell’associazionismo, per recuperare quanto si era perso. Al fatto che, programmando una didattica integrata in parte a distanza in parte in presenza per le superiori (prima della ripresa della pandemia) non ci si è posti né il problema della necessità di innovare la didattica stessa, né di approntare le forme di consulenza e sostegno necessarie per quei ragazzi che non hanno gli strumenti materiali o l’ambiente adatto. Un problema diventato macroscopico con il passaggio al 100 per cento di didattica a distanza che ora, nelle zone rosse, coinvolge anche i ragazzini più piccoli. Solo due settimane fa sono stati stanziati fondi per colmare il divario digitale che tuttora persiste nelle scuole. Anche nella scuola primaria, che per ora rimane teoricamente in presenza, la possibile e ricorrente messa in quarantena di singole classi o di interi plessi non trova una organizzazione preparata a riorientarsi tempestivamente. E si è continuato a far finta di ignorare che non tutti a casa hanno luoghi adatti allo studio, persone che possono dare una mano. Sarebbe necessario mettere a disposizione, anche in collaborazione con l’associazionismo, forme di appoggio a distanza e luoghi sicuri di prossimità, dove i ragazzi/e in piccoli gruppi possano trovare gli strumenti, l’ambiente, le relazioni necessarie ad accompagnarli in questi tempi difficili, a sostenerne la fiducia. Invece, quando si tratta di scuola, e dei più giovani, tutto è sempre all’insegna dell’emergenza e dell’improvvisazione. Alla fine, la delega è sempre alle famiglie (e alle loro disuguali risorse) e alla buona volontà dei singoli. —

“Aprire le porte ad ascolto e fiducia” L’INTERVISTA A CHIARA SARACENO

A cura di Chiara Materassi

La Vita Scolastica n. 4/2020

Trovi l’intervista sulle due riviste edite da www.giuntiscuola.it, La Vita Scolastica e Scuola dell’infanzia, e anche su Facebook: @lavitascolastica e @scuoladellinfanzia

Laureata in filosofia, ha insegnato Sociologia della famiglia all’Università degli Studi di Torino, presso la facoltà di Scienze politiche; è stata direttrice del dipartimento di Scienze sociali (1991-98), del Centro interdipartimentale di studi e ricerche delle donne (1999-2001), nonché membro della Commissione italiana di indagine sulla povertà e l’emarginazione (2000-01). Dalla fine degli anni Duemila è professore di ricerca al Wissenschaftszentrum für Sozialforschung di Berlino e si occupa di tematiche legate a cambiamento sociale e sviluppo demografico. I suoi studi si concentrano in modo particolare su politiche e mutamenti familiari; questione femminile relativa alle strategie di conciliazione tra i tempi familiari e i tempi di lavoro; rapporti tra generi e generazioni; sistemi di welfare.
Tra le principali pubblicazioni si ricordano
Sociologia della famiglia (1988), Mutamenti della famiglia e politiche sociali in Italia (1998), Onora il padre e la madre (2010), Conciliare famiglia e lavoro (2011), Coppie e famiglie. Non
è questione di natura (2012), Il welfare (2013), Il lavoro non basta (2015), Mamma e papà. Gli esami non finiscono mai (2016) e L’equivoco della famiglia (2017).

Che importanza assumono le relazioni oggi, in un contesto come quello in cui viviamo, e come si costruisce la relazione con i bambini?
Per i bambini le relazioni, incluse quelle con non famigliari, tra pari e con altri adulti, hanno una importanza cruciale per la crescita: aiutano a collocarsi in un mondo di persone emozioni, sentimenti diversificati e diversificabili, creano attaccamento, ma anche capacità di distinzione. Sono quindi anche importanti sia per l’attaccamento sia per l’autonomia, per la maturazione della consapevolezza, e sicurezza, dell’appartenenza e per la capacità di individuazione. Il venir meno, o l’indebolirsi, delle possibilità relazionali extra-famigliari durante il lockdown, perciò ha comportato una sottrazione – temporanea, ma non per questo senza conseguenze – di risorse per lo sviluppo che è stata a mio parere troppo sottovalutata nel contrastarla alle esigenze di sicurezza sanitaria. Paradossalmente, inoltre, è stata sottovalutata proprio nel caso dei più piccoli (nidi e scuole dell’infanzia), dove l’assenza non poteva essere mascherata dalla didattica a distanza. Opportunamente si è parlato, per i bimbi/e dei nidi e scuole dell’infanzia, piuttosto di attivare relazioni a distanza. Ma questo non è sempre avvenuto, o non sempre è stato sufficiente per i piccoli, che più di tutti hanno bisogno della fisicità della presenza e della conoscenza esperienziale dei contesti cui “appartengono” le persone con cui stanno
in relazione.

Si dice spesso che il rapporto con le famiglie sta diventando sempre più
delicato: è vero?

Non so se oggi il rapporto con le famiglie sia più delicato di un tempo. È vero che le famiglie sono più differenziate per composizione e culture, ma è anche vero che forse oggi si ha maggiore consapevolezza di un tempo di questa differenziazione e della necessità di rispettarla senza sovraimporvi un modello unico. E forse i genitori, consapevoli o meno di “navigare a vista”, sentendosi vulnerabili ai giudizi altrui, sono anche più insofferenti di un tempo ai giudizi e alla pretesa di autorevolezza, su di loro, di educatrici e
insegnanti. Mi sembra che siamo in un periodo in cui le reciproche attese di insegnanti e genitori hanno uno statuto incerto e perciò tendenzialmente conflittuali e soggette a delusioni reciproche.

continua…


I nostri giovani senza un futuro

di Chiara Saraceno, La Stampa 15 luglio 2020

Il calo demografico, di cui ha scritto anche Sabbadini ieri su questo giornale, non sarebbe un problema, se si trattasse solo di una riduzione numerica della popolazione. 

Potrebbe persino sembrare un segnale positivo a chi pensa che siamo già in troppi. Il problema è che questo calo è dovuto alla combinazione di tre fenomeni che insieme riducono la capacità di ricambio generazionale nel nostro Paese… continua su LaStampa.it

L’Italia intrappolata nella crisi demografica, l’emergenza è la natalità

di Alessandro Rosina, 13 luglio 2020

Record minimo storico di nascite dall’Unità d’Italia: meno 4,5% rispetto al 2018. La crisi nel lavoro frena la scelta di avere un figlio

L’Italia si trova intrappolata da lungo tempo in una profonda crisi, più insidiosa di qualsiasi recessione economica o altro tipo di emergenza. Si tratta della crisi demografica. I dati sul bilancio demografico nazionale, appena pubblicati dall’Istat, certificano che nel 2019 le nascite sono precipitate a 420 mila. La pandemia provocata da Covid-19 si annuncia avere conseguenze particolarmente pesanti sulla natalità del 2020 e del 2021, avendo frenato in larga parte… continua su Repubblica.it