Un’alleanza per l’infanzia

di Emmanuele Pavolini, Alessandro Rosina, Chiara Saraceno

Le nascite in Italia sono in continua diminuzione e la condizione dell’infanzia è caratterizzata da livelli di diseguaglianza inaccettabili in un paese civile. Come evidenziano Pavolini, Rosina e Saraceno, serve una maggiore consapevolezza culturale dell’importanza di questi temi e un rafforzamento della capacità di sviluppare e mettere in campo politiche pubbliche efficaci, a partire dalla legge di bilancio 2020.

Infanzia e natalità in Italia: un quadro molto preoccupante

Il tema dell’infanzia, del sostegno pubblico alla crescita socio-educativa dei minori e alla natalità, è strategico per lo sviluppo dell’Italia. Un tema ed una sfida trattati più volte negli articoli di questo sito. Purtroppo, l’Italia non sembra essere stata capace fino ad ora di sviluppare politiche pubbliche e interventi collettivi all’altezza.

In Italia nascono pochi bambini e bambine. È un paese che ormai da tempo si sta lentamente spegnendo sotto il profilo della vitalità demografica. Il numero medio di figli per donna è ai livelli più bassi d’Europa (in compagnia della Spagna) e le nascite sono in continua diminuzione (Figura 1). I dati Istat dei primi sei mesi del 2019 indicano inoltre un ulteriore calo rispetto al primo semestre 2018 (208 mila contro 213 mila). L’unico destino che abbiamo è quello di rassegnarci a squilibri crescenti che erodono le basi del futuro comune?

Le cause della denatalità non vanno cercate tanto in un calo del desiderio di avere figli, ma soprattutto nelle difficolta crescenti che incontrano coloro che vorrebbero averne. Molti genitori non ricevono un sostegno adeguato nella responsabilità di crescere un figlio, dal punto di vista economico sia delle necessità di cura ed educative.

Le madri sono spesso penalizzate sul mercato del lavoro. Una donna lavoratrice su cinque lascia il lavoro all’arrivo di un figlio per difficoltà nel conciliare maternità e lavoro. Anche coloro che non lasciano il lavoro pagano una penalità in termini di rallentamento di carriera e di salario, con effetti di medio periodo sul benessere economico familiare e di lungo periodo sul valore della pensione che riceveranno.

Una parte assolutamente non trascurabile di bambini e bambine sperimenta livelli di diseguaglianza e di povertà inaccettabili in un paese civile e democratico. Oltre un minore su dieci in Italia si trova in povertà assoluta.

Benché tutti gli studi mostrino l’importanza, accanto al ruolo cruciale della famiglia, di fare esperienze educative precoci in contesti educativi non solo famigliari, in Italia gli asili nido e, più in generale, i servizi socio-educativi per la prima infanzia hanno ancora livelli di copertura molto bassi (Figura 2) e costi che rischiano di renderli inaccessibili per molte famiglie di ceto medio. Sono inoltre presenti in modo diseguale a livello territoriale, accentuando in molti casi lo svantaggio verso le aree più povere e marginali, rispetto sia alle risorse per la conciliazione, sia alle opportunità educative.

Una “finestra di opportunità” per promuovere politiche per l’infanzia e per la natalità?

Dopo anni in cui le politiche per l’infanzia sono rimaste “quasi congelate”, negli ultimi anni il tema ha cominciato ad entrare nell’agenda politica, dapprima con l’istituzione del fondo per la povertà educativa con la legge finanziaria del 2015, ed ora con l’art. 42 del Disegno di legge di bilancio 2020 e la proposta di legge 687 di Delrio ed altri. Il primo istituisce un fondo unico per le famiglie, accorpando i vari bonus attualmente in vigore e incrementandolo con risorse aggiuntive così a arrivare a 2 miliardi di euro. Il fondo sarebbe destinato da un lato ad un assegno mensile per un anno per i nuovi nati e neo-adottati subordinato a criteri di reddito (il vecchio bonus bebé), dall’altro a costituire una “dote”, sempre subordinata a criteri di reddito, per contribuire al costo del nido per i bambini tra gli 0 e i 3 anni. Il secondo ha l’obiettivo ambizioso di riformare l’intero sistema dei trasferimenti per i figli a favore di un assegno unico per tutti i figli minori ed insieme di introdurre una dote per il pagamento dei servizi educativi e di cura per i bambini.

Gli obiettivi di queste due proposte normative sono condivisibili in linea di massima, ma presentano anche forti debolezze e criticità, come rilevato da più soggetti. Esse sono l’oggetto anche di un documento preparato dalla neo-costituita Alleanza per l’infanzia¹, di cui fanno parte associazioni di diverso tipo oltre ad un gruppo di studiosi, tra cui chi scrive. I punti sollevati sono riconducibili a tre ordini di fattori. Uno è il rischio che il previsto (nel disegno di legge di bilancio) assegno annuale per i neonati si esaurisca in una ennesima misura una tantum, se non inserito da subito in una revisione sistematica e organica dell’insieme dei trasferimenti legati alla presenza di figli minori, così come proposto nel Disegno di legge Delrio ed altri. Un secondo riguarda la dote per il pagamento dei servizi per la primissima infanzia. Esso può costituire un aiuto importante per chi potenzialmente avrebbe accesso ad un nido, ma non può permettersene la retta. Tuttavia non è di nessun aiuto a chi non può neppure prendere in considerazione l’iscrizione al nido semplicemente perché l’offerta è insufficiente o nulla. Si tratta della grande maggioranza dei bambini e delle loro famiglie, oltre il 75% se si tiene conto solo dei nidi pubblici e convenzionati,² poco di meno (fig. 2) se si includono anche quelli totalmente di mercato. Particolarmente scoperte sono le regioni meridionali. Per non creare nuove disuguaglianze, e realizzare quanto stabilito dal DLgs 65/2017 che ha istituito un sistema integrato di educazione e istruzione dalla nascita ai sei anni, occorre aumentare l’offerta di servizi di qualità, pubblici e convenzionati. Una terza questione riguarda i congedi di maternità, paternità e genitoriali. Troppe lavoratrici autonome o precarie sono ancora oggi escluse dal pagamento della indennità di maternità. I congedi genitoriali sono troppo poco indennizzati perché possano essere davvero fruiti e condivisi tra padri e madri. Ovviamente non si possono affrontare tutte insieme e in breve tempo tutte queste questioni. Tuttavia è importante che i passi che si intraprendono non mettano a rischio la coerenza di un disegno riformatore.

Note


¹ Ne fanno parte al momento ACTA, ARCI, Associazione Culturale Pediatri, Centro per la salute del bambino, CGIL,CISL, UIL, Cittadinanza attiva, Gruppo nazionale nidi e infanzia, Legacoopsociali, Save the Children, Sbilanciamoci, Unicef Italia.

² Openpolis, La condizione dei minori in Italia, 2019,


*Articolo pubblicato su Neodemos.info il 19 novembre 2019:
https://www.neodemos.info/articoli/un-alleanza-per-linfanzia/
Pubblicato anche su Lavoce.info

Genitori 2019

di Giorgio Tamburlini

Siamo giovani o vecchi o bambini, femmine o maschi; possiamo essere italiani o stranieri, e anche cristiani, interisti, marchigiani, pescatori, avvocati, precari, diabetici, musicisti, socialisti, montanari ecc. ecc.
Ognuno di noi è un arlecchino di identità diverse, alcune stabili, altre transitorie. Ognuno di noi assume identità diverse a seconda della lente, o delle lenti, attraverso cui è visto e vede se stesso. È questo uno dei motivi per i quali un’attribuzione identitaria unica e assoluta è totalmente illogica, che sia nostra o di qualcun altro. Non siamo mai una cosa sola, e nemmeno due, o tre. Affermarlo è innanzitutto un falso. Tra le nostre possibili identità ve n’è una particolarmente importante, nel senso che ci condiziona molto nei pensieri e nelle opere, per una buona parte della vita: quella di essere genitori. Una identità che a sua volta può declinarsi in tipologie diverse: genitore riconosciuto, segreto, biologico, adottivo, sopraggiunto… anche queste non necessariamente esclusive l’una dell’altra.
Uno degli aspetti peculiari di questa complessa e articolata identità genitoriale è la sua mutevolezza, sia in ciascuno di noi, nel corso della propria vita, sia in tutti noi umani nel corso delle epoche e attraverso le culture: sono certamente un genitore diverso rispetto a com’ero trent’anni fa, molto diverso da come lo sono stati i miei stessi genitori, e da come lo sono in questo momento altri, quelli che vivono a Nanchino, a Yaoundé o a Buenos Aires. Ma c’è qualcosa di comune, di ragionevolmente stabile negli anni, nei secoli e nelle diverse culture, in questo essere genitori? Non molto, ma qualcosa sì: un istinto di protezione, ma anche un senso di proprietà; una speranza; un amore, un dovere, una gioia, un cruccio…
E, certamente, resta immutato, ma comunque definito dal genere, e dal periodo riproduttivo, qualche marker biologico, neurobiologico, neuroendocrino. Tutto il resto dell’identità genitoriale è mutevole, dipendente da epoche, culture, norme, tradizioni e contesti. In questo nostro tempo di “grande accelerazione” è ancora più mutevole, come sanno gli educatori, i pediatri, gli psicologi, i demografi, i sociologi, gli esperti di marketing e di comunicazione. Cambia la genitorialità in quanto dimensione del singolo, e cambiano, come si sa, le tipologie familiari, i comportamenti riproduttivi, i vincoli giuridici e le norme sociali. Su tutti i diversi aspetti della genitorialità abbiamo a disposizione dati, soprattutto quantitativi, derivanti da rilevazioni statistiche, indagini e ricerche, che riguardano i genitori stessi, o i nuclei familiari di cui fanno parte, e i servizi a loro dedicati. Da questi dati apprendiamo, ad esempio, anche che questa identità genitoriale è, in Italia, in forte contrazione quantitativa. Tra gli italiani, la proporzione degli almeno-una volta-genitori si sta riducendo rapidamente: era il 90%, sta passando, grosso modo, al 75%.
I numeri dicono già molto, ma non spiegano tutto. In questi anni di lavoro con operatori dell’infanzia di varie discipline, e con le stesse famiglie, abbiamo raccolto sui genitori di oggi descrizioni, parole chiave. Eccone alcune, raccolte da Nord a Sud, senza pretesa di completezza o di rappresentatività: solitudine; insicurezza, richiesta di aiuto, spesso implicita; difficoltà a leggere e interpretare le emozioni dei figli; fatica ad adeguarsi alla nuova identità di madri e padri, di operare alcune rinunce rispetto allo stile di vita precedente; mancanza di esperienza dell’essere genitori, anche di quella trasferita dall generazione precedente; scarso supporto familiare; sovraesposizione alle informazioni e difficoltà a discernere; paura, per l’incolumità, soprattutto fisica, dei figli, o senso generico di angoscia, che si trasferiscono in preoccupazioni spesso sproporzionate; iperprotezione unita a delega di responsabilità educative; difficoltà a conciliare rapporti di coppia e carriera professionale, o semplicemente lavoro e genitorialità.
C’è anche dell’altro, naturalmente: molto impegno, molta voglia di accompagnare i bambini nella loro crescita, di esserci, anche da parte dei padri. Quando questo c’è, però, spesso coesiste con qualcuna delle difficoltà descritte. Su questo merita riflettere. Come può essere più difficile fare il genitore oggi, rispetto a qualche decennio fa? Certo, non ci sono più le grandi famiglie con la loro capacità di protezione sociale; l’urbanizzazione e le condizioni di lavoro creano ostacoli logistici importanti, i servizi sono carenti, i redditi a volte insufficienti. Ma ci sono anche meno malattie, meno povertà (nonostante tutto), più servizi (nonostante tutto), più informazioni (molte più informazioni) e, almeno in teoria, più strumenti per comprenderle, rispetto al passato. Eppure, che sia più difficile è un fatto. Ne è testimone il calo delle nascite che, se in buona parte dovuto anche al ridursi progressivo della coorte di giovani in età fertile, è certamente anche dovuto al contrarsi del numero di figli per donna: quelli messi al mondo e, stando alle ultime rilevazioni, anche quelli desiderati. Se non fosse più difficile fare figli perché mai se ne farebbero di meno? Il fatto è che non tutte le difficoltà genitoriali si possono spiegare con le condizioni materiali. E, che derivino da queste ultime o anche da una fatica genitoriale più profonda, abbiamo appreso che possono lasciare segni sui bambini che vengono al mondo. Segni che restano. Un po’ come il clima, la genitorialità è in rapida trasformazione. In tutto il mondo, sia pure con velocità diverse. L’identità genitoriale è scossa, non si basa più su solide certezze, è a rischio. La genitorialità, intesa come insieme di conoscenze, attitudini, competenze e pratica, va protetta, sostenuta. Non si tratta solo di difendere i tassi di fertilità. Dobbiamo persuaderci che quello che “corre” tra genitori e figli ha molto peso, anche su questioni che apparentemente dipendono da altri fattori. Un esempio: pensiamo forse di essere stati e di essere governati da un giallo, da un verde o da un rosso? Non è così. O meglio, è solo in parte così. Siamo governati da qualcuno che è prima di tutto figlio di questo o quel genitore… a sua volta figlio di qualcun altro e della comunità di appartenenza. Ci hanno governato, e ci governano, quei bambini che poi, proprio perché “figli di”, si sono messi la casacca di questo o quel colore, hanno fatto e dicono e fanno questo e quello, in ragione della provenienza sociale delle loro menti e in buona parte delle esperienze fatte fin da piccoli. Una buona parte dei grandi problemi del nostro tempo, da quelli dell’economia a quelli dell’ambiente e dei conflitti, dipende dunque non poco da come i genitori si relazionano ai propri figli, si pensano come madri e padri, e da cosa le comunità intorno a loro hanno fatto e sono capaci di fare, o meno, per loro. Di queste comunità facciamo parte anche noi, operatori dell’infanzia, con un ruolo e una responsabilità aggiuntive. Vogliamo un modo migliore? Diamo una mano ai genitori affinché trovino risorse e sostegno per svolgere al meglio il loro difficile compito.


Pubblicato su:

Medico e Bambino
Ottobre 2019 – Volume XXXVIII – numero 8
Editoriali

[G. Tamburlini Genitori 2019. Medico e Bambino 2019;38(8):483-485 https://www.medicoebambino.com/?id=1908_483.pdf ]

Parere sulla proposta di legge Del Rio, Lepri e altri: “Delega al Governo per riordinare e potenziare le misure a sostegno dei figli a carico attraverso l’assegno unico e la dote unica per i servizi”

di Chiara Saraceno

Premessa
L’obiettivo della proposta di legge, razionalizzare il frammentato sistema di trasferimenti legati alla presenza di figli per migliorarne l’efficacia e l’equità, anche al fine di un sostegno alle scelte di fecondità, è totalmente condivisibile. Le criticità e inefficienze della attuale situazione, sinteticamente riassunte nella nota di presentazione alla proposta di legge, sono state oggetto da tempo di analisi da parte di studiosi e di associazioni della società civile e vi è un consenso diffuso e trasversale sulla necessità di riforma.  Analogamente condivisibili sono in linea di principio i due strumenti individuati a questo scopo, l’assegno unico e la dote per l’utilizzo di servizi. Con il primo si aiutano le famiglie, tutte, non solo quelle appartenenti a determinate categorie, a fronteggiare il costo dei figli, riducendo il rischio che la scelta di avere un figlio (in più) produca forti squilibri nel bilancio famigliare o addirittura causi la caduta in povertà. È opportuno ricordare a questo proposito che l’Italia è uno dei paesi dell’Unione Europea con più forte incidenza della povertà minorile e dove sono particolarmente a rischio di povertà le famiglie con più figli. Con il secondo, il voucher servizi, si aiutano i genitori nei propri compiti di cura ed educativi, sia favorendo la conciliazione tra lavoro e famiglia, sia offrendo possibilità di confronto e consulenza, sia allargando i contesti e le relazioni educative per i bambini.
Le osservazioni e gli appunti critici che seguono vanno quindi collocati all’interno di questa condivisione di principio. Riguardano essenzialmente tre aspetti: a) i criteri di individuazione del reddito in base al quale modulare vuoi l’assegno, vuoi la dote, b) il range di servizi per cui può essere utilizzata la dote, c) la necessità di integrare questi due strumenti – assegno unico e dote – con un sostanzioso investimento in servizi educativi. Altre osservazioni riguardano le età dei figli considerate ai fini della erogazione rispettivamente dell’assegno e della dote.

Criteri di individuazione del reddito
Non entro qui nel dibattito se sia più opportuno avere misure uguali per tutti, a prescindere dal reddito o se, all’interno di una logica universalistica e non categoriale, sia più opportuno graduare il valore della misura (assegno e dote) in base al reddito della famiglia. Ci sono buone ragioni per sostenere sia l’una sia l’altra posizione, anche dal punto di vista dell’universalismo e dell’equità. Accettando la scelta dei proponenti di graduare le due misure in base al reddito famigliare, in modo da renderle più corpose per i redditi più bassi accentuandone l’efficacia redistributiva, le mie osservazioni riguardano i criteri. Nello specifico:

  1. Non è chiaro perché si adottano due criteri diversi per le due misure: il reddito per l’assegno unico, l’ISEE per la dote. L’introduzione dell’ISEE per tutte le misure legate ad un test dei mezzi è stato un processo lungo e faticoso e non ancora compiuto. Non mi sembra il caso che in una stessa legge che si propone di razionalizzare l’esistente per arrivare a due sole misure che hanno a che fare con la stessa platea e con bisogni complementari si introduca di muovo una differenziazione nei criteri/strumenti di individuazione delle risorse disponibili.
  2. Ancora meno chiara, e francamente peculiare, è la scelta, nel caso dell’assegno unico, non solo di considerare solo il reddito e non l’ISEE, ma di considerare soltanto il reddito individuale più alto presente in famiglia. Ciò è in palese contrasto con ogni principio di equità. Una famiglia con un unico reddito, ad esempio, sarebbe penalizzata rispetto ad una famiglia con due redditi, entrambi inferiori all’unico reddito della prima, ma con una somma totale più alta. Inoltre, non c’è alcun riferimento all’ampiezza della famiglia, come se non facesse differenza il numero di persone che di quel reddito devono vivere.

Alla luce di queste considerazioni, mi sembrerebbe più opportuno fare riferimento all’ISEE per entrambe le misure o, in subordine, nel caso si ritenga per qualche ragione più opportuno considerare il solo reddito per l’erogazione dell’assegno, la parte reddituale dell’ISEE, che considera sia tutti i redditi, sia l’ampiezza della famiglia, con due avvertenze. La prima è che è opportuno considerare l’ISEE (o la sua parte reddituale) corrente e non quello basato su dati – di reddito e ricchezza – relativi ai due anni precedenti, che è uno degli aspetti critici  dell’ISEE più volte segnalato. La seconda è che nel definire la gradualità della diminuzione del beneficio al salire dell’ISEE, si eviti sia di creare scalini troppo ripidi (con aliquote implicite molto alte) sia di erogare agli scaglioni più alti cifre così irrisorie da non essere in alcun modo significative. Sono questioni da tenere presenti quando si tratterà di scrivere i decreti delegati.

Servizi per cui può essere usata la dote
All’art. 3, comma 1 , lettera a si dice “a) istituzione di una dote unica per un ammontare fino a un massimo di 400 euro per dodici mensilità, per ogni figlio fino ai tre anni di età, utilizzabile per il pagamento di servizi per l’infanzia quali asili nido, micronidi, baby parking e personale direttamente incaricato”.
A mio parere questa formulazione presenta due problemi.

  1. In primo luogo, ed è la questione più importante, il ventaglio di “servizi” per cui può essere spesa la dote è troppo ampio e generico, senza alcuna indicazione di criteri di qualità. Se l’obiettivo è il sostegno alla genitorialità e l’ampliamento delle possibilità educative dei bambini, sembra ragionevole indirizzare l’utilizzo di questa dote a questo scopo. Baby parking e babysitter, pur con eccezioni, difficilmente garantiscono sia possibilità di confronto e consulenza ai genitori sui propri compiti e problemi, sia opportunità educative ai bambini. E’ una questione cruciale alla luce dell’importanza che ormai tutti gli esperti – dai pediatri agli psicologi dell’età evolutiva – riconoscono ai primi tre anni di vita e in particolare ai primi mille giorni per lo sviluppo futuro dei bambini, sottolineando il ruolo cruciale che in questa prospettiva ha sia il lavoro con i genitori, sia la frequenza di un nido di qualità. Lo confermano anche i dati dei test PISA sulle competenze cognitive dei quindicenni: a parità di condizioni economiche famigliari svantaggiate, aver frequentato almeno un anno al nido riduce il rischio di non raggiungere le competenze di base di quell’età. Inoltre, questi studi mostrano che, se i servizi di buona qualità aiutano i bambini a crescere, quelli di non buona qualità non sortiscono tanto un effetto nullo quanto un effetto negativo: in altri termini, è meglio per un bambino rimanere affidato alle sole cure informali familiari piuttosto che frequentare un servizio di scarsa qualità educativa. Sarebbe, quindi, necessario restringere la possibilità di spendere la dote all’utilizzo di servizi per l’infanzia pubblici o privati appartenenti ad una rete di servizi certificati per la loro qualità, accreditati a livello locale ma sulla base di criteri condivisi a livello nazionale. Possono fare parte di questa rete anche i micronidi, i nidi aziendali, o le tagesmutter e simili presenti in alcune zone ove è difficile organizzare un nido, purché siano, appunto, certificate e supervisionate per la loro qualità educativa, e non operino come puri servizi custodialistici.
    Aggiungo che andrebbe esplicitato che la “dote”, pur subordinata nella sua entità all’ISEE, è indipendente dallo status occupazionale dei genitori, in particolare della madre. Anche una madre casalinga ha diritto a ricevere sostegno alla genitorialità e anche i figli di madre casalinga hanno diritto ad ampliare le proprie opportunità educative.
  2. La nota carenza di servizi per la prima infanzia, unita all’assenza del requisito della certificazione di qualità educativa, presenta il concreto rischio che la disponibilità di una dote, da un lato incentivi l’aumento di un’offerta di servizi di mercato poco o per nulla attenta alla qualità, dall’altro incoraggi l’aumento delle rette.

Necessità di integrare l’assegno unico e la dote servizi con l’investimento in servizi
Alla luce delle due osservazioni sopra formulate, mi sembra che, oltre a restringere l’utilizzo della dote a servizi certificati e accreditati, occorra anche prevedere all’interno di questa proposta di legge un investimento per aumentare l’offerta di questi servizi, a partire dall’offerta pubblica.
L’obiettivo di sostenere la genitorialità e le opportunità educative dei bambini, infatti, non può essere affrontato solo dal lato della domanda. Va affrontato anche dal lato dell’offerta. Gli ultimi dati di Save the Children  segnalano che in Italia un bambino su dieci non ha posto in un nido pubblico, con picchi negativi in alcune regioni, per lo più nel Mezzogiorno, dove solo il 2-3% dei bambini dagli zero ai tre anni ha accesso a un nido pubblico. La situazione è solo in parte compensata dai nidi privati (inclusi quelli aziendali) o convenzionati, stante che, secondo i dati di Openpolis, il livello di copertura complessivo in Italia è del 20%, che sale al 24% se si considerano anche le sezioni primavera nelle scuole per l’infanzia. La stragrande maggioranza dei bambini (e dei loro genitori) quindi, è esclusa da questo servizio, con effetti negativi non solo sulla opportunità delle madri di rimanere nel mercato del lavoro, ma sulle pari opportunità tra bambini. A ciò si aggiungano le enormi disparità regionali. Le regioni del nord offrono un posto al nido ad un bambino ogni quattro, alcune regioni del Sud (con l’eccezione della Sardegna che si avvicina alle regioni del Nord) non riescono ad offrirlo neppure ad un bambino ogni dieci.

Occorre, quindi, sviluppare e prevedere nella legge un sostegno economico all’ampliamento dell’offerta di servizi di qualità per la prima infanzia.

Per quali età?
La questione si pone, ovviamente, diversamente nel caso dell’assegno unico e della dote servizi.
Per quanto riguarda l’assegno unico, si può valutare se limitarlo solo ai figli minorenni, eventualmente rendendolo più corposo, o ai maggiorenni fino a 24 anni, purché siano ancora in formazione. Nel caso dei figli disabili, occorrerebbe specificare “senza limiti di età”.

A margine osservo che la lettera d) comma 1 art 2  – “mantenimento degli importi in vigore per coniuge e altri famigliari a carico” – non è chiaro a quali importi si riferisca, al di fuori delle  detrazioni fiscali e che queste ultime presentano il consueto svantaggio per gli incapienti, che non possono fruire di alcuna detrazione.

Per quanto riguarda la dote servizi, la sua estensione sino al compimento del quattordicesimo anno di età rivela l’implicita idea che si tratti di una misura “custodialistica”, destinata a baby sitter, visto che dai tre anni in su i bambini sono a scuola. Se l’obiettivo è sostenere la conciliazione lavoro-famiglia, meglio rafforzare il tempo pieno scolastico di qualità, che avrebbe il duplice effetto aggiuntivo di rafforzare le opportunità educative per i bambini e di creare posti di lavoro di qualità nel sistema scolastico. In alternativa, si potrebbe vincolarne l’uso alla partecipazione ad attività sportive, o di apprendimento della musica, o teatro, cioè ad attività extracurriculari di cui è stata individuata  l’importanza per lo sviluppo dei bambini e da cui spesso sono esclusi i bambini dei ceti economicamente più modesti. Ma, anche qui, potrebbe esserci un problema di offerta (e di accreditamento). Altrimenti, meglio concentrare le risorse sui bambini sotto i tre anni.

Documento presentato in audizione alla Commissione Affari speciali della Camera da Chiara Saraceno che riporta il parere sulla proposta di legge Del Rio, Lepri e altri, n. 687 (XVIII legislatura).

Nota alla proposta di assegno unico

di Chiara Saraceno

Negli interventi, assolutamente necessari, e con ricadute importanti sia per lo sviluppo precoce dei bambini che per l’occupazione femminile, a supporto dell’accesso a servizi per l’infanzia, occorre porre molta attenzione a non mettere sullo stesso piano servizi di significato e valore molto diverso. 
Da una parte infatti vi sono servizi quali i nidi e servizi integrativi che si propongono un fine educativo, dall’altra servizi che si propongono un intento prevalente o esclusivo di “facilitazione logistica” per i genitori, quali baby parking e altre tipologie caratterizzate dall’assenza di coinvolgimento delle famiglie e scarsa o nessuna trasmissione di competenze da parte degli operatori ai genitori.
Una cospicua e crescente mole di studi, effettuati sia in campo internazionale che in Italia, documenta i benefici, in particolare per bambini di famiglie di medio-basso livello socio-economico e culturale, della frequenza di nidi di qualità.

L’accesso a questi servizi, che nella loro grande maggioranza si fondano su solide basi pedagogiche, con diverse esperienze italiane che costituiscono riferimento di eccellenza in tutto il mondo, consente ai bambini di usufruire di opportunità di sviluppo sul piano cognitivo, socio-relazionale e dell’autonomia che le famiglie, o per lo meno la grande maggioranza di queste, non sono in grado di offrire. Va quindi fortemente supportato dalle politiche pubbliche, sia abbassando la soglia di accessibilità economica, sia soprattutto aumentando l’offerta, che in buona parte d’Italia è ancora del tutto insufficiente, sia ancora creando consapevolezza nelle famiglie e nelle comunità che inviare i propri bimbi al nido rappresenta un grande investimento per il futuro, sia immediato che a lungo termine, a prevenzione della dispersione scolastica e di altri esiti sfavorevoli.  Con un ritorno dell’investimento pari a moIte volte il costo sostenuto inizialmente.
Inoltre, quando i genitori sono coinvolti, anche per breve tempo, nelle attività educative (lettura, gioco, musica e movimento, piccolo giardinaggio, cura ambientale, ecc.) possono coglierne l’importanza e la fattibilità a casa, osservare il piacere che i bambini (e loro stessi) ne ricavano, e motivarsi quindi a utilizzare il tempo a disposizione con i propri figli in attività costruttive del loro sviluppo.

Una recentissima indagine (2019) effettuata da Save the Children su un campione di bimbi di 3,5-4 anni, residenti in varie città italiane, da Nord a Sud, ha dimostrato che a questa età i bambini hanno competenze (cognitive, motorie, sociali) che sono già diverse, in rapporto non solo al background dei genitori, ma alla frequenza al nido negli anni precedenti e, ancora, alle attività svolte in famiglia, quali la lettura condivisa. Coniugare il supporto economico alle famiglie con bambini che ne hanno bisogno alla maggior fruizione di servizi e proposte educative di qualità è una scommessa da vincere per qualsiasi governo che abbia a cuore equità e sviluppo. 


Per approfondire:

Infanzia: in Italia asilo nido pubblico solo
per 1 bambino su 10